E’ una condanna senza mezzi termini, quella uscita dal vertice straordinario della Lega araba a Doha, la capitale del Qatar colpita lo scorso 9 settembre da un bombardamento israeliano diretto contro i capi del gruppo radicale palestinese Hamas, in città per negoziare una tregua proprio con Israele. La violazione della neutralità qatariota, unita alla morte di alcuni cittadini del piccolo Stato arabo, avevano già messo in serio dubbio la capacità del Qatar di poter operare come mediatore tra le due parti e portato a una sospensione a tempo indefinito di ogni discussione di pace per quanto riguarda la guerra a Gaza. Conflitto che Tamim bin Hamad, Emiro del Qatar, non ha esitato a definire «una guerra di sterminio», prima di accusare Israele di praticare il «terrorismo di Stato».
Il sovrano, da molti considerato uno degli esponenti di punta del fronte arabo moderato e filo-occidentale, ha messo in guardia le altre nazioni arabe da nuovi attacchi israeliani nel futuro, avvertendo che il tentativo israeliano di costruire un a propria sfera d’influenza sia una pericolosa illusione. Di «minaccia senza limiti» ha parlato invece Abdullah II, Re di Giordania. Il premier pakistano Shehbaz Sharif ha proposto la formazione di una task force coniunta per adottare misure efficaci contro Israele, una proposta sostenuta dall’Iraq secondo il quale ogni attacco contro un Paese arabo dovrebbe essere considerato un’aggressione contro l’intero mondo arabo.
Il governo pakistano ha anche lanciato la proposta di espellere Israele dalle Nazioni Unite, per via della sua evidente e ripetuta violazione del diritto internazionale. Si è trattato di una serie di prese di posizione forti, veicolate – insieme alla scelta simbolica di svolgere il meeting nella città bombardata – per esprimere la propria solidarietà al Paese colpito e per ribadire la crescente insofferenza araba verso la condotta israeliana in Palestina. Tuttavia, è apparso evidente come i Paesi arabi non abbiano, almeno in questa fase, intenzione di adottare misure radicali contro lo Stato ebraico.
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Almeno non prima del prossimo 23 settembre, quando diversi Paesi occidentali – sotto guida franco-britannica – dovrebbero riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina in occasione di un’apposita conferenza delle Nazioni Unite a New York. Israele ha già promesso gravi ripercussioni, minacciando l’annessione di tutta o di parte della Cisgiordania palestinese in caso di riconoscimento, un gesto che – secondo il governo degli Emirati arabi uniti – porterà probabilmente al ritiro dei Paesi arabi moderati dai cosiddetti Accordi di Abramo, l’intesa diplomatica che nel 2019 aveva portato alla normalizzazione dei rapporti tra questi e Israele. Le azioni israeliane «minacciano tutto ciò che è stato realizzato sulla via della normalizzazione dei rapporti con Israele, compresi gli accordi esistenti e futuri», si legge in una bozza del comunicato finale della Lega araba, con chiaro riferimento alle intese con Tel Aviv.
Per scongiurare questa prospettiva, oggi il Segretario di Stato americano Marco Rubio dovrebbe atterrare in Qatar accompagnato dall’ambasciatore statunitense in Turchia e inviato speciale per la Siria, Thomas Barrack. Il capo della diplomazia americana è reduce da una due giorni in Israele, dove ha ribadito il pieno sostegno statunitense alla controversa strategia del governo Netanyahu. Rubio ha dichiarato in conferenza stampa che «Hamas è stato incoraggiato dalle iniziative di Francia, Regno Unito e altri Paesi volte a riconoscere uno Stato palestinese». «Sono in gran parte simboliche, non hanno davvero alcun impatto nel farci avvicinare a uno Stato palestinese. L’unico effetto reale che producono è quello di rendere Hamas più audace», ha affermato.
Per Netanyahu è stata invece l’occasione per mostrare anche il «sostegno incrollabile» – parola di Rubio – dell’alleato americano, come controaltrare del vertice di Doha. «La presenza di Rubio è un chiaro segnale che gli Stati Uniti sono al fianco di Israele contro l’antisemitismo e i governi deboli che stanno demonizzando il Paese», ha dichiarato il premier israeliano. Netanyahu ha quindi accusato un numero imprecisato di Stati e aziende di aver creato un “blocco mediatico-finanziario” per isolare e assediare Israele, a suo dire guidato proprio dal Qatar e sostenuto dalla Cina. Per sfuggire a tale pressione internazionale Tel Aviv non dovrà soltanto fare affidamento sull’alleato ma anche sviluppare delle capacità autonome.
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«Dovremo adattarci sempre di più a un’economia con caratteristiche autarchiche. Dobbiamo diventare Atene ed una Super-Sparta. Non abbiamo scelta», ha affermato il premier israeliano prima di accusare i governi europei di essere manipolati dalla presenza di musulmani all’interno delle proprie società, elemento che li spingerebbe ad abbracciare posizioni anti-israeliane. Il leader di Tel Aviv ha anche sottolineato la necessità di combattere la guerra digitale a suo dire mossa dalle Ong di tutto il mondo con il sostegno sempre di Qatar e Cina e a cui i Paesi europei avrebbero capitolato. Israele ha quindi promesso di investire pesantemente sui social per combattere la “propaganda anti-israeliana” su ogni canale mediatico.
A tal proprosito il leader israeliano si è paragonato a Charlie Kirk, il giovane commentatore israeliano assassinato lo scorso 10 settembre. Netanyahu ha affermato che in Israele e in America gli esponenti politici sono costretti ad affrontare costanti minacce di morte da parte dei loro avversari e che anche lui, come Kirk e Donald Trump, sarebbe stato più volte minacciato di morte.