La grandezza dell’impero costruita con una rete di acquedotti che ha garantito sviluppo e prosperità, aumentando prestigio e potenza
Regina aquarum, ossia regina delle acque, era il titolo dato all’antica Roma per la sua relazione speciale con l’acqua. Una risorsa preziosa che, grazie al prodigio dell’ingegneria degli antichi romani, è stata resa accessibile a buona parte della popolazione attraverso la realizzazione di un servizio idrico adeguato e imperituro: gli antichi acquedotti romani.
Per Dionigi di Alicarnasso, “la grandezza dell’impero romano si rivelava mirabilmente in tre cose: gli acquedotti, le strade, le fognature”. Non meno importanti le testimonianze di ammirazione, di stupore e di esaltazione degli autori moderni, come gli illustri e celebri “viaggiatori” del XVIII e XIX secolo giunti in Italia per effettuare il Grand Tour.
Tra tutti, basta ricordare Goethe, che l’11 novembre del 1786 annotava nel suo diario: “Gli avanzi dell’imponente acquedotto impongono veramente rispetto. Quale grande e nobile scopo è quello di abbeverare un popolo mediante un monumento così grandioso”.
Sin dagli albori della civiltà, l’uomo è sempre stato dipendente dalle acque, dalla loro disponibilità, ma senza poterle controllare. Con le prime civiltà nascono anche le prime tecniche, azionate con la forza dell’uomo, degli animali o dell’acqua stessa, per il sollevamento delle acque dai pozzi o dal letto dei fiumi. Ma, la scienza idraulica per trovare la sua massima espressione deve attendere l’epoca romana.
L’utilizzo dell’acqua e la sua restituzione all’ambiente avevano un importante ruolo sociale e politico per gli antichi romani, costituendo parte di un piano strategico per assicurarsi il sostegno e il favore di ampie fasce di popolazione.
Lo dimostra il fatto che l’accesso e l’uso dell’acqua era controllato dai curator acquae, dei veri e propri vigilanti dell’acqua che ne evitavano gli sprechi, controllavano gli sbocchi privati abusivi e infliggevano pene ai trasgressori.
Nel campo delle acque, i romani impiegarono i migliori architetti e ingegneri della storia per realizzare gli imponenti acquedotti, esempi di grandi opere pubbliche, simboli della progredita civiltà di Roma, ma anche e soprattutto veicoli di propaganda per il suo potere e per il suo imperatore.
Come testimonia Plinio Il Vecchio, nell’opera Naturalis Historia ritenendo l’acquedotto Marcio, Aqua Marcia, “la più famosa di tutte le acque del mondo per freschezza e salubrità”, definendola “la gloria della città di Roma” e celebrandola come “un dono fatto all’Urbe dagli déi”.
Roma possedeva ben undici acquedotti dal 312 a.c., offrendo una disponibilità di acqua pro capite pari al doppio di quella attuale.
(Nella foto, tratta dal sito del Comune di Roma, un’immagine del Parco degli Acquedotti).
Il primo acquedotto cittadino, denominato Aqua Appia, fu commissionato dal censore Appio Claudio Cieco, costituendo uno dei due grandi progetti pubblici del tempo. Oggi le sue vestigia sono totalmente scomparse, ma altri esempi dell’architettura e ingegneria idraulica romana continuano a svettare con maestose arcate, come quelli dell’acquedotto Claudio voluto dall’imperatore Caligola ad un costo elevatissimo dovuto, secondo Plinio il Vecchio, all’imponenza dell’impresa e all’aumentato costo di tecnologie più evolute.
Grandi e imponenti opere, che da circa due millenni costellano il paesaggio della campagna romana, a Sud della città, universalmente celebrate. Certo, non esistevano gli odierni laboratori scientifici dove effettuare le analisi dell’acque da destinare all’alimentazione. I Romani, forti del loro pragmatismo, ricorrevano a criteri del tutto empirici: la fonte delle sorgenti, il sapore e la temperatura delle acque, tenendo in debita considerazione anche lo stato di salute delle popolazioni che vivevano in prossimità delle sorgenti. In pratica, le acque dalle sorgenti venivano fatte convergere in una o più piscinae limariae, ossia vasche di sedimentazione per consentire a fango, terra e altre particelle di depositarsi sul fondo, liberando l’acqua dei detriti. Successivamente, l’acqua veniva incanalata negli specus, canali scavati nel terreno o nella roccia che scorrevano sotterranei per convergere nei punti di raccolta fuori dalle mura della città. Testimonianza tangibile di tutto questo, tra le fonti antiche, è l’opera Aquaeductu Urbis Romae di Sesto Giulio Frontino, attestazione di una gloriosa politica in grado di realizzare una complessa rete idrica, che dal centro si estendeva a raggiera con uno sviluppo complessivo di circa cinquecento chilometri verso i laghi Sabatini a settentrione ed i colli Albani a meridione.
Gli acquedotti romani erano, dunque, un asse portante non solo per il mantenimento e l’approvvigionamento idrico di un popolo, ma anche per la sanità e la sicurezza dell’Urbe; giganti che si imponevano nel paesaggio, testimoni silenziosi di un prestigioso incarico, motivo di grande orgoglio e segno identificativo della potenza e della lungimiranza degli antichi romani. Non è un caso se, per alcuni storici uno dei motivi della decadenza dell’impero romano sia legato proprio allo smantellamento dei grandi acquedotti, iniziato con l’avvento del periodo medievale.
In buona parte delle città dell’Impero romano, e ben oltre le mura di Roma, vennero costruiti gli acquedotti, alcuni dei quali sono ancora in funzione, seppur adattati alle moderne esigenze. Anche a Roma ce n’è uno ancora funzionante: è l’acquedotto Vergine, Aqua Virgo. Le origini del nome risalgono probabilmente alla purezza e freschezza delle sue acque, anche se una suggestiva leggenda lo fa risalire alla fanciulla che indicò il luogo delle sorgenti ai soldati incaricati della ricerca. La sua longevità è dovuta alla sua costruzione quasi integralmente sotterranea che ne ha garantito la sopravvivenza, preservandolo dalle calamità naturali e dalle devastazioni barbariche, consentendogli, oggi, di alimentare le più note fontane artistiche della Capitale, come la Fontana di Trevi e di Piazza Navona, ma anche la Barcaccia.
Senza spostarsi dall’ambito romano, vale la pena parlare del Pont del Diable nella città di Tarragona, in Spagna, così chiamato perché una leggenda narra che fu costruito dal Diavolo dopo aver vinto una scommessa in cui una fanciulla rischiava di perdere l’anima.
Costruito in epoca augustea, questo imponente acquedotto era parte di un sistema più ampio che portava l’acqua fino in città, le cui vestigia si ergono ancora oggi, dominando il paesaggio circostante e rientrando nel patrimonio Unesco. Testimone dell’ingegneria romana e bizantina è anche l’acquedotto Valente, costruito durante il regno dell’Imperatore Valente. Venne progettato per portare l’acqua dalla foresta di Belgrado alla città, e nonostante gli oltre 1600 anni dalla sua messa in piedi, ancora oggi domina Istanbul con le sue maestose arcate.
Ma, gli acquedotti antichi non sono stati un’esclusiva prerogativa dell’Impero romano. Se volgiamo lo sguardo oltre i confini del Regno, civiltà di tutto il mondo hanno contribuito alla creazione di queste imponenti opere idrauliche per gestire l’approvvigionamento di acqua.
Un esempio illustre è l’acquedotto di Tambomachay, conosciuto come le terme degli Inca. Un luogo destinato al culto dell’acqua e al riposo degli Inca, da cui si dice tragga origine il suo nome. Si racconta che in questo luogo l’acqua non smettesse mai di asciugarsi, motivo per cui Tambomachay era considerato anche la fonte dell’ “eterna giovinezza”.
Oggi, l’acquedotto è visibile solo in parte, perché distrutto dagli invasori spagnoli che cercarono di eliminare la cultura Inca.
Tesori idraulici costruiti nel cuore del deserto peruviano ed ancora funzionanti sono pure le strutture idrauliche della civiltà di Nazca. Sono i puquios, una rete di acquedotti così denominata per i punti di partenza a forma di spirale costruiti dai Nazca che, allo scopo di evitare inondazioni, avevano realizzato grandi curve per assicurarsi che l’acqua non scorresse troppo velocemente quando la neve si scioglieva in primavera. Strutture idriche alle quali i contadini locali si affidano ancora oggi per trasportare acqua nella regione arida del Perù.
Queste esigenze, legate al bisogno di una rete idrica capace di adattarsi al difficile paesaggio naturale, sono state una delle principali sfide che ha dovuto affrontare la città di Matera, nota anche per aver creato un sistema idrico per garantire un adeguato approvvigionamento idrico ed evidenziare quello che era un uso consapevole e sostenibile dell’acqua.
L’acquedotto di Matera, composto da cisterne, palombari e pozzi, rappresenta una testimonianza tangibile della lunga storia di ingegneria idraulica e della capacita dei suoi abitanti di adattarsi al difficile ambiente di quei luoghi e sfruttarne le risorse idriche. Tre sono gli elementi che compongono lo schema di gestione dell’approvvigionamento idrico letteralmente scavato nella pietra: l’opera di captazione; il trasporto attraverso canalizzazioni; e l’accumulo finale al serbatoio. In tal modo, la rete idraulica dei Sassi ha rappresentato un elemento essenziale per la vita quotidiana e l’economia della comunità sassese. Oggi, sebbene la modernizzazione della gestione delle risorse idriche ha portato alla costruzione di acquedotti e sistemi di distribuzione dell’acqua che rendono meno necessaria la rete idraulica locale dei Sassi, come il Palombaro Lungo al bordo Sud della città utilizzato fino ai primi decenni del ’900, quando è stato messo in opera l’Acquedotto del Sele. Nondimeno, evidenze dell’antico schema di gestione delle acque sono ancora visibili e visitabili.
La gestione delle acque, le pratiche di raccolta e di sfruttamento idrico costituiscono, dunque, da sempre un peculiare elemento della cultura e delle tradizioni di un territorio, incidendo sul valore paesaggistico dei territori e sullo sviluppo e l’ascesa di una civiltà. Lo dimostrano le sfide affrontate nel corso della storia da popoli di diverso lignaggio per garantire un adeguato approvvigionamento idrico, sottolineando anche l’importanza di un utilizzo consapevole e sostenibile delle risorse. Non è un caso se Sesto Giulio Frontino, governatore romano e curatore dell’acque, con volontà di elogiare queste grandi opere dell’ingegno umano, scrisse: “A tali costruzioni, necessarie per così ingenti quantità d’acqua, oseresti paragonare le inutili piramidi d’Egitto oppure le opere dei Greci tanto famose quanto improduttive?”.