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Se il campo largo ha il fiato corto

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Nel giorno in cui il campo largo fa i conti con la sua ristrettezza elettorale nelle Marche, e forse nel Paese, a Milano Forza Italia sostiene con l’astensione una sfilacciata maggioranza di centrosinistra sul progetto del nuovo stadio di San Siro. I due episodi stanno in relazione, ancorché raccontano equilibri diversi. Il primo segna una polarizzazione contrappositiva, che dalla politica si trasmette alla società e spacca l’opinione pubblica. Il secondo disarticola questa divisione e la ricompone dal centro, facendo convergere liberali e riformisti. Viene da chiedersi: Milano è altro rispetto all’Italia, una comunità dove il civismo e il pragmatismo, e forse anche il suo più alto benessere, giustificano, come invocava Letizia Moratti in un’intervista all’Altravoce qualche giorno fa, un candidato esterno ai partiti nella competizione del 2027 per Palazzo Marino? O è piuttosto e anche un laboratorio di futuro, in grado di mostrare una potenzialità inespressa della democrazia italiana, cioè una postura diversa di metodo e di merito, che riguarda la possibilità di affrontare, in un modo più realistico di quanto accada nel dibattito pubblico, temi diversissimi tra loro come la crisi di Gaza e lo stadio del Milan e dell’Inter?

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Questa domanda interpella allo stesso modo i moderati del centrodestra e del centrosinistra. E riceve risposte non sempre sincere, poiché l’ipocrisia è parte del tatticismo politico. Che fa dire per esempio a Renzi: «Non è vero che non c’è più spazio per il campo largo, bene ha fatto Schlein a insistere in questa alleanza». Il che rivela in parte la sagacia di un leader che la maturità ha fatto, non solo più furbo, ma anche più paziente. E poiché la pazienza in politica è anche preveggenza, Renzi interpreta i fermenti di Milano come il segno che prima o poi, in un tempo circolare non definibile, il riformismo tornerà egemone a sinistra e lui si candida a riprendersi l’eredità che ha lasciato.

Il Pd odierno invece approda alle conclusioni di Renzi con un ragionamento opposto, tutto schiacciato sul presente. Dice: il campo largo è andato peggio di quanto si sperasse, ma il Pd da solo avrebbe forse potuto capovolgere quel risultato? E approda alla conclusione che l’alleanza con i Cinquestelle è una scelta necessitata, per dirla con un ossimoro difficile da digerire per l’elettorato. È l’ambizione del miglior perdente.

Anche perché c’è modo e modo di stringere un’alleanza. Schlein ha scelto di unirsi ai Cinquestelle assomigliando il più possibile a loro, e mettendo fuori gioco l’area riformista, sia del partito sia del centrosinistra. Se il Pd fosse davvero forza egemone in quel campo, non solo dal punto di vista numerico, dovrebbe produrre tensioni non tra i suoi riformisti, che ob torto collo ingoiano il boccone amaro del campo largo, ma piuttosto all’interno dei Cinquestelle. Nel senso che dovrebbe essere il Pd a dettare la linea e scaricare su Conte l’onere di tenere insieme la parte del movimento che, pur di vincere le elezioni, accetta di mediare con il Pd e la parte dei duri e puri che sognano la corsa solitaria. Questo problema i Cinquestelle non ce l’hanno affatto. Ce l’ha il Pd, perché la linea falsamente unitaria di Schlein schiaccia il partito sul populismo pentastellato. Non a caso la campagna elettorale delle Regionali ha virato con grande disinvoltura sul reddito di cittadinanza e sulla Flotilla, due temi per merito o per metodo tipicamente populisti, che hanno avuto l’effetto di scoraggiare un elettorato più pragmatico e riformista.

Il «sardinismo» di Schlein è una sfumata declinazione del populismo pentastellato delle origini. In una politica e in una società che cambiano alla velocità della luce, è già anacronistico. Resta da capire se a rottamarlo sarà una nuova leadership riformista, come spera Renzi, che prima o poi troverà nel Pd lo spazio per emergere, o la scomposizione del quadro politico capace di spaccare il bipolarismo contrappositivo e di offrire, prima ancora che un governo alternativo, un racconto alternativo a quello del centrodestra egemone. Nessuna dei due esiti pare immediato. Dipenderà da quanto l’Italia si avvicinerà a Milano – oggi più che mai «vicina all’Europa», come cantava Lucio Dalla – e forse anche da quanto Milano accetterà di farsi carico dell’Italia.

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