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Roma, Gaza e il perché di una svolta

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Quando si è raggiunta a Gaza quota 200.000 vittime (fonti israeliane), il “business as usual” non regge per nessuno. Non per il governo di Tel Aviv che vede incrinarsi gli ultimi bastioni euro-occidentali di negazione del riconoscimento dello stato di Palestina (-6), mentre l’ampia maggioranza degli stati membri dell’ONU ne sostiene l’esistenza. Netanyahu sa, attraverso canali palesi ed occulti, che l’opinione pubblica mondiale e non trascurabili parti della diaspora ebraica criticano: sia la campagna di estirpazione totale in corso a Gaza, sia l’impetuosa occupazione delle terre cisgiordane da parte di altri coloni, sia il calcolato disprezzo per le vite umane e per gli ostaggi in due anni di operazioni indiscriminate. Le ripercussioni simboliche e culturali di quanto sta accadendo sono ancora più profonde, perché implicano danni pesanti non tanto alle narrative nazionalpopuliste, quanto al capitale di benevolenza gestito nei decenni: nonostante visibili erosioni, due anni hanno disperso quasi tutto, come se non ci fosse un domani.

Non per i governi arabi, abituati dal 1948 a gestire un complicato equilibrismo tra piazza e palazzo. È evidente che Gaza ed il bombardamento a Doha non permettono i soliti escamotage. L’arrivo dell’accordo di sicurezza saudita-pakistano non è di buon auspicio per gli Accordi di Abramo e la bomba d’Islamabad apre scenari molto più inquietanti dei “soliti sospetti iraniani”, all’ombra della crescente influenza di Pechino.

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Non per gli Stati Uniti, che hanno espresso in rapida successione: piani edilizi per Gaza, disappunto per le azioni israeliane, trattative non concordate con Houthi ed Iran e, adesso, un piano di pace cui otto stati arabi e mussulmani, invitati a commentare, hanno risposto in modo diplomatico e puntuale. No all’annessione di Gaza e dei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese, no alla campagna in corso a Gaza, no alla violazione dello status quo in Gerusalemme, no agli ostacoli ai ritorni dei palestinesi nelle loro terre, no ai bombardamenti israeliani nella regione, sì ad una fine “comprensiva” delle ostilità, anche con la liberazione degli ostaggi, sì ad una soluzione pacifica nella regione e sì agli aiuti umanitari. E nemmeno per la generalmente afona UE che, forte di 19 pacchetti pregressi anti Putin, addirittura parla di sanzioni, dazi e sospensioni commerciali, un inaudito Sanction Boycott and Divest all’acqua pazza.

Se le posizioni chiare e reiterate della Santa Sede sulla questione potevano superficialmente sembrare trascurabili, quelle del governo italiano dovrebbero far riflettere la coalizione di governo israeliana. Anche per Roma non siamo alle solite.

In primo luogo, l’On. Meloni ha detto esplicitamente che le operazioni sono andate oltre il principio di non proporzionalità, coinvolgendo anche comunità cristiane. Successivamente ha definito inaccettabili, oltre agli assassini di giornalisti, anche gli attacchi di droni non rivendicati contro la flottiglia, approvando l’invio di due fregate a protezione e soccorso delle imbarcazioni, dei cittadini italiani e di tutti gli altri partecipanti. Infine, il ministro della Difesa Crosetto non è stato meno esplicito.

Non c’è dubbio che questi gesti quasi senza precedenti nella storia repubblicana sono stati accompagnati da politicamente corretti ed opportuni distinguo ed integrazioni, nonché da chiare regole d’ingaggio, ma a nessuno sfugge che la premier Meloni aveva già sentitamente accarezzato l’idea di riconoscere la Palestina già diversi mesi fa. Perché?

I bombardamenti a tappeto su Gaza, seguiti dalle cannonate sul contingente italiano UNIFIL in Libano, hanno cambiato il calcolo politico. Non si era mai visto un ambasciatore israeliano apertamente richiamato da un ministro della Difesa italiano. Un campanello d’allarme ignorato. Tre sono le ragioni squisitamente politiche di questo cambio di rotta. Prima, le piazze non possono essere ignorate del tutto, mentre nei mesi passati i pro-Pal erano manganellati senza tante cerimonie; bisognerà pur dare un segnale. Seconda, i popoli delle destre hanno una persistente ambivalenza verso il conflitto arabo-israeliano: da un lato ammirano la potenza e l’efficienza dei Blitzkrieg israeliani, dall’altro hanno un’irresistibile tendenza a sposare eroicamente le “cause perse”.

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Da qui, è facile temere fenomeni antisemitici di ritorno. Terzo, questo governo apertamente sovranista e nazionalista non ha nessuna intenzione di avere un Regeni bis, magari con un parlamentare morto. Forse sarebbe opportuno ascoltare le voci anche da alcune comunità ebraiche, le quali suggeriscono di creare un corridoio umanitario per la flottiglia verso Gaza in modo da rivelare le vere intenzioni dei soccorritori.

C’è poi un evidente calcolo geopolitico di lungo periodo. L’Italia dall’inizio del secolo scorso agisce de facto secondo chiari schemi nel Mediterraneo: creazione di spazi d’interesse nazionale contro o all’ombra dell’egemone marittimo del momento; vicinanza concreta al mondo arabo, contemperata dall’equivicinanza con Israele sin dove possibile; ricerca della stabilità il più mediata e concordata possibile insieme alle grandi potenze; protezione di rotte, comunicazioni e porti vitali; apertura al commercio anche con partner improbabili a prima vista. Come per Trump ed Erdogan, anche per Meloni Gaza è chiaro fattore di pesante perturbazione degli affari in un mondo, apparentemente multipolare, ma che rischia di sciogliersi in reti di noduli regionali, ingovernabili e caotici, come rivelato dal rapporto dell’Osservatorio Nazionale per la Sicurezza ad inizio settimana ai vertici della Difesa.

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