Da anni, sull’Ilva di Taranto si consuma una delle più sfiancanti rappresentazioni dell’incapacità italiana di decidere. Ogni tavolo istituzionale è un’appendice del precedente, ogni annuncio un esercizio di retorica. Il Governo aveva spiegato che cacciata Arcelor Mittal ci sarebbe stata la svolta, con una nazionalizzazione temporanea e poi la cessione. La gara di vendita è fallita, si procede senza base d’asta e gli ultimi potenziali acquirenti azeri che avevano offerto un miliardo, dopo l’incredibile incendio di Afo1 erano disponibili a metterci meno della metà delle risorse. Nel frattempo, il destino della più grande acciaieria d’Europa si dissolve tra rimpalli e scaricabarile: enti locali contro Governo, Governo contro enti locali, Enti locali in conflitto tra di loro, che a turno decidono a chi tocca il “privilegio” di mettersi di traverso.
Si discute di tutto, su tutto ma soprattutto sui media. Decarbonizzazione, piani ambientali, incentivi, governance, cordate industriali. Tutti temi legittimi, ma tutti scollegati dal punto fermo che nessuno osa affrontare: senza un piano serio di rilancio produttivo, il resto è aria fritta. Non ci sarà decarbonizzazione che regga se l’impianto non produce acciaio competitivo; non ci sarà bonifica che duri se l’area resta in abbandono; non ci sarà occupazione stabile senza un’industria viva. E bisogna dire con chiarezza come si arriva agli almeno otto anni necessari per realizzare i forni elettrici. Che si fa nel frattempo?
Eppure, l’agenda politica sembra piegata a un eterno presente, in cui il vero obiettivo è guadagnare tempo. Tempo per arrivare alle prossime elezioni senza scelte impopolari, tempo per evitare di firmare atti che comportino rischi, tempo per spostare il problema sul tavolo di qualcun altro. Questa paralisi non è frutto del caso: fa comodo a chi teme scelte impopolari, a chi vuole galleggiare fino alla prossima scadenza elettorale, a chi ha fatto dell’assistenzialismo una strategia di governo locale. Ma intanto, Taranto perde competenze, il Paese rinuncia a un asset industriale strategico e l’Italia diventa più dipendente dall’acciaio estero.
Taranto non può vivere di cassa integrazione e promesse. Il Paese non può rinunciare alla siderurgia strategica senza pagare un prezzo altissimo in termini di autonomia industriale, economia e dignità del lavoro. Solo Taranto era rimasta a fare acciaio da ciclo integrale. In Italia ne consumiamo 15 milioni di tonnellate (nei vari settori) e ne importiamo il 90%. La farsa deve finire: servono decisioni rapide, investimenti certi e la capacità di tenere insieme competitività, transizione ecologica e tutela dell’occupazione.
A Taranto, attorno all’ex Ilva, sembra essersi consolidato un equilibrio perverso in cui la cassa integrazione diventa la soluzione “meno conflittuale” per tutti gli attori istituzionali e aziendali. Per l’azienda significa non dover affrontare investimenti massicci o ristrutturazioni complesse. Per la politica è un modo per evitare decisioni impopolari o lo scontro su un piano industriale chiaro. Per una parte del sindacato che pigramente crede che la Cig sia una tutela minima che consente di mantenere in vita il rapporto di lavoro, anche se in sospensione, e la sopravvivenza del sindacato. Per lo Stato è un ammortizzatore che previene l’esplosione sociale immediata.
Il problema è che questa “stabilità apparente” è in realtà una paralisi: brucia competenze professionali, spegne ogni prospettiva industriale, condanna un territorio a dipendere da trasferimenti e non da produzione. È una dinamica simile a quella che si è vista in altri siti industriali italiani dove, in assenza di un progetto, l’ammortizzatore sociale diventa la politica industriale di fatto. Senza infingimenti, è la scelta dell’establishment italiano (anche del Sud), che non ha mai creduto nel rilancio del Sud e ormai lo vede come il suo “buen retiro” dove passare le ferie o la pensione o buone rendite prodotte da altri.