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I messaggi di Trump a Putin e Xi Jinping

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Per la prima volta da oltre cinque mesi, quando è rientrato alla Casa Bianca, Donald Trump ha messo nero su bianco una serie di messaggi che, se confermati nelle prossime settimane, potrebbero davvero costituire una censura, rappresentare un punto di non ritorno per l’evoluzione del quadro politico internazionale.

Si tratta di indicazioni desumibili dalle decisioni assunte nella guerra tra Israele e Iran, la cosiddetta «guerra dei dodici giorni», e dalle prese di posizione durante e a margine del vertice Nato svoltosi all’Aia.

Il primo doppio messaggio è stato inviato alla Russia di Vladimir Putin. Con il comunicato finale del vertice Nato, che contiene solo due volte la parola Ucraina, che non cita esplicitamente l’invasione russa e non accenna nemmeno lontanamente all’aggressione di Mosca, tutto appare cinicamente chiaro. Washington è pronta a mollare Kyiv, Trump è disponibile a sacrificare Zelensky e il popolo ucraino. Musica celestiale per le orecchie dell’autocrate russo.

Attenzione però: vi è anche un rovescio di questa medaglia, nell’altro messaggio diretto a Mosca. L’efficacia militare dimostrata dalla coppia Israele-Usa nei confronti dell’Iran è stata implicitamente messa a paragone con l’inefficacia della coppia Mosca-Teheran, in oramai tre anni e mezzo di pressione sull’Ucraina. La preponderanza in termini di mezzi e uomini della Russia e l’aiuto dei droni iraniani non hanno avuto ragione di fronte alla resistenza ucraina, supportata da Usa ed Europa.

Con l’attacco all’Iran Trump ha riaffermato la centralità strategica e il primato tecnologico e militare statunitense prima di tutto rispetto alla Russia. Obama aveva offeso Putin definendo Mosca una potenza regionale? Trump le ha mostrato, con il suo intervento contro Teheran, più o meno la stessa cosa, ma formalmente, con il comunicato finale del vertice dell’Aia, ha accreditato l’idea che Putin guidi ancora una superpotenza.

Proprio il richiamo alla centralità strategica permette di spostare il discorso sul doppio output rivolto a Pechino. Rispetto alla Cina, che Trump considera il vero rivale, ancora due punti di estremo interesse. Il primo riguarda la dimensione militare. La partecipazione all’attacco aereo accanto ad Israele può essere letta come l’opposto della scelta di abbandonare in fretta e furia l’Afghanistan operata dall’amministrazione Biden. Il tycoon, pur ribadendo il mantra che piace al suo popolo Maga (disimpegno Usa dagli affari del mondo), ha lanciato un chiaro monito prima di tutto a Pechino: il disimpegno statunitense dal Medio Oriente è solo un artificio retorico.

Se nel 2021 il danno di immagine fu netto, oggi si potrebbe dire che intervenendo sul finale e ponendosi poi come arbitro della tregua, Trump ha ottenuto «molta resa, con poca spesa». Si può poi discutere sul fatto che il lavoro «sporco e tragico» continui ad essere lasciato nelle mani di Netanyahu. Ma proprio laddove Pechino compra una parte consistente del suo indispensabile petrolio, proprio laddove la Cina ha siglato un partenariato strategico nel 2021 da 400 miliardi in cambio appunto di un flusso continuo di idrocarburi, Washington ribadisce il suo primato militare.

Accanto alla dimensione bellica vi è anche quella diplomatica. Come dimenticare l’attivismo sull’asse Teheran-Riyadh del 2023, tenuto a battesimo proprio da Pechino. Ebbene Trump, con il suo modo di incedere brutale e da bullo, ha ribadito che gli Usa non intendono lasciare imperversare la diplomazia cinese nell’area.

Lungo l’asse Teheran-L’Aia si è infine delineato il doppio monito per gli europei. Questi ultimi possono esultare, e per tutti il più realista del re Rutte: gli Stati Uniti sono rimasti «in». Di fronte alla promessa degli assegni in arrivo nei prossimi dieci anni, Trump ha confermato l’impegno statunitense sul Vecchio Continente e soprattutto la garanzia del rispetto dell’articolo 5 dell’Alleanza atlantica (ma più ancora quella della forza dissuasiva e deterrente del nucleare).

Dall’altro lato vi è però la parte di notizie meno positive per gli europei. E il ragionamento passa nuovamente dal dossier ucraino. Il quadro è così delineabile. Nella già citata «guerra dei dodici giorni» Trump ha sostenuto politicamente e militarmente Israele. Mentre il mondo guardava verso il Medio Oriente Putin ha accelerato la sua drammatica escalation in Ucraina. Quale l’operato di Washington? Armi e tecnologia ad Israele, nulla di tutto ciò o perlomeno solo qualche esigua promessa a Kyiv.

Ecco allora che questa seconda parte del messaggio recapitato agli europei si trasforma in una vera e propria sfida esistenziale per il loro (cioè nostro) futuro. Da una parte è indispensabile sfruttare al meglio ciò che la Nato già oggi rappresenta, in termini di patrimonio di deterrenza e per tutta quella interoperabilità esistente tra i differenti eserciti che la compongono, i loro sistemi d’arma e le loro catene di comando.

Dall’altro però tutto ciò non deve più essere considerato un punto di arrivo, ma la molla dalla quale partire per sviluppare all’interno dello «spazio atlantico» quel pilastro europeo, che già sembra allargarsi anche a Regno Unito e Canada.

L’obiettivo non va sottaciuto e consiste nel poter pensare, in un orizzonte di medio periodo, di autonomizzarsi dagli Usa. Stiamo parlando della più volte citata «autonomia strategica», che non sarà per oggi e nemmeno per domani, ma che dovrà tramutarsi in qualcosa di più di una formula ad effetto. Macron lo ha spesso suggerito, l’amministrazione Trump oramai lo ha imposto.

Per riempire di concretezza tale autonomia strategica tre sembrano i pilastri imprescindibili: debito comune, consorzi industriali europei per incentivare la produzione di tutto ciò che può essere utile a generare sicurezza, e una paziente e ostinata pedagogia politica, tesa a contrastare la falsa equazione sicurezza militare uguale bellicismo.

I leader riuniti a Bruxelles per il Consiglio europeo sono consapevoli di essere ad un punto di non ritorno nella storia del Vecchio Continente? Il “bullo” di Washington, non si sa quanto consapevolmente, ha indicato la direzione. Sfruttare quest’ultima finestra di opportunità rappresenta un obbligo esistenziale.

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