«Già nel 1999, prima dell’introduzione dell’euro, la Francia aveva una spesa pubblica elevata, intorno al 53%. Da allora è aumentata ancora di più, oggi è al 57%, con una grande divaricazione rispetto a Paesi come la Germania. In più, la spesa pubblica francese soffre l’aggravio del pagamento degli di interessi che oggi valgono 66 miliardi di euro contro i 26 del 2020: oggi Parigi spende più per il carico degli interessi che per difesa e istruzione, con il rischio di arrivare a 100 miliardi nel 2030». L’economista Marco Buti, adesso all’Istituto Universitario Europeo, già direttore generale per gli Affari economici e finanziari dell’Unione europea e capo di gabinetto del commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni, descrive così l’incapacità della Francia di tenere sotto controllo i conti pubblici.
FRANCIA, LE CORNU NUOVO PRIMO MINISTRO
François Bayrou voleva tagliare 44 miliardi di euro dal bilancio ma il Parlamento non glielo ha permesso. Perché la Francia non riesce a spendere di meno?
«Il sistema francese è molto accentrato con autonomie regionali molto deboli: la pubblica amministrazione è di qualità ma richiede molte risorse. La debolezza delle istituzioni intermedie va di pari passo con la debolezza dei corpi intermedi: parti sociali e associazioni. Il tasso di sindacalizzazione francese è il più basso della zona euro. Di conseguenza i corpi intermedi non si fanno carico dell’interesse generale e sviluppano comportamenti corporativi. Così è difficile trovare consenso sociale per riforme come quella delle pensioni. In pratica, le istituzioni decentrate e i corpi intermedi non fanno nessun filtro rispetto agli shock e ogni crisi arriva all’Eliseo. Per contro, nella direzione opposta, l’iniziativa del presidente crea tensioni sociali che vanno fuori controllo come nel caso della violenza diffusa dei gilet gialli. Adesso è il turno di un nuovo movimento sociale che si chiama “Bloquons tout” (Blocchiamo tutto) che ha annunciato uno sciopero per domani (oggi per chi legge, ndr)».
Le pensioni sono il caso esemplare. In Francia la pensione dura in media 25 anni, la più lunga in assoluto. Ma i francesi non si rendono conto dell’insostenibilità di un tale sistema.
«È così. In passato una demografia più vibrante rispetto al resto dell’Europa aveva permesso una crescita del Pil, ma l’invecchiamento della popolazione e l’ossessione contro l’immigrazione ha annullato questo beneficio. Finora, inoltre, la Francia è stata identificata dai mercati come parte del duo franco-tedesco: così ha beneficiato di un lasciapassare sui tassi di interesse con spread limitati, più di quanto il debito pubblico poteva permettere. La percezione che il motore franco-tedesco sia in panne lascia la Francia più sola sui mercati: non è scontato che la Bce arrivi ad aiutare il Paese. Ma la Francia non può più vivere al di sopra dei propri mezzi».
La riforma Fornero è stata decisiva per risparmiare una crisi simile al nostro Paese?
«Senza dubbio. L’assenza di crisi in Francia ha anestetizzato il sistema. La crisi dell’Eurozona ha costretto alcuni Paesi a fare le riforme richieste da Bruxelles. Il governo Monti, con la riforma Fornero, riuscì ad adottare misure impopolari ma necessarie. Ieri Bayrou ha detto: “Voi potete far cadere il governo, ma non potete cancellare la realtà”. Ma a livello popolare questa consapevolezza non c’è, e ancora meno fra le forze politiche».
I due partiti populisti di destra e di sinistra vorrebbero abbassare l’età pensionabile da 64 a 60 anni…
«Le due ali estreme, maggioritarie nel Paese, sono molto corporative e non intendono prendere decisioni per mettere sotto controllo la spesa pubblica. Ma anche i centristi figli della tradizione gollista è una cosa contronatura. La Francia non è abituata alle crisi che sono degli elettroshock per il sistema».
E quindi?
«Lo spread e i tassi di interesse, rispetto alla crisi finanziaria, sono molto contenuti. In più, al debito pubblico che aumenta si aggiunge un indebitamento delle imprese che arriva al 75%: basti pensare che in Spagna e Italia sta al 50-55% e in Germania al 45%. Come reagiranno i mercati adesso di fronte al prossimo giudizio delle agenzie di rating? In passato in periodi di tensioni generalizzate un declassamento ha fatto la differenza per spingere lo spread: oggi c’è un punto interrogativo».
C’è il rischio di un effetto contagio in Europa?
«Non abbiamo visto alcun contagio come in passato avvenne quando dalla Grecia partì un effetto domino su Spagna, Portogallo, Italia. Adesso le tensioni francesi rimangono sul mercato domestico: il che dovrebbe rassicurare nel breve termine sulla solidità finanziaria del sistema euro».
Lei ha appena citato i quattro Paesi Pigs: oggi però se la passano meglio…
«È vero. I Paesi che, sotto pressione, hanno fatto le riforme e messo sotto controllo i conti pubblici dal 2010 fino al 2016-17 stanno dando risultati adesso in termini di crescita e di riduzione degli squilibri con l’estero. Inoltre stanno utilizzando i fondi del Pnrr meglio degli altri».
Anche in Italia la cultura della stabilità sta prevalendo?
«Sì. Nella crisi del governo Berlusconi nel 2011, Meloni era ministro della Gioventù e vide la crisi in diretta. Anche questo oggi motiva un atteggiamento di finanza pubblica prudente che rassicura i mercati. Tuttavia, da parte del governo non si vedono riforme strutturali che favoriscano la crescita».
Nel dibattito pubblico interno, la Francia è descritta come una “terra desolata neoliberista”. C’è il rischio in Francia che nella percezione comune le riforme diventino solo tagli?
«Le riforme strutturali hanno effetto sul lungo periodo: migliorano le condizioni di stabilità nel breve termine ma l’accelerazione della crescita arriva dopo. In più, per le ragioni che abbiamo enunciato prima, i costi sociali iniziali delle riforme sono stati molto elevati mentre la seconda fase “riformista” non è mai avvenuta».
Una lezione per i riformisti?
«Sì, bisogna associare già all’inizio l’efficienza all’equità con riforme strutturali 2.0: istruzione, risorse umane, ecologia e digitale. Come ha chiarito Draghi servono investimenti per la competitività, ma anche per la solidarietà».
Compresa la difesa?
«A questo scopo la Commissione Ue ha attivato la clausola di salvaguardia che permette di togliere le spese per la difesa (aumento fino 1,5 punti del pil fino a 4 anni) dai vincoli del patto di stabilità. Ma Francia, Spagna e Italia, diversamente dalla Germania, non hanno fatto appello a questa clausola: sono giustamente più preoccupati dalla reazione dei mercati che delle regole europee».
Una Francia in crisi rende più debole l’Europa proprio mentre bisogna resistere a Putin e trattare con Trump…
«La debolezza della Francia è un problema: nel motore franco-tedesco, a volte anche per ragioni opportunistiche, Parigi ha sempre spinto per più Europa ed è stata all’avanguardia sul bilancio comune della zona euro. Inoltre, grazie all’ombrello nucleare, ha avuto un ruolo di leadership dell’Europa sulle questioni internazionali».
Nelle prossime settimane i nodi verranno al pettine…
«Sì, soprattutto la contraddizione tra le prerogative del presidente e quelle del Parlamento. In politica estera, il primo ministro non ha alcun ruolo. Sul bilancio, la sovranità è del Parlamento. Sarà complicato tradurre gli impegni in politica estera in decisioni di bilancio visto che i due partiti estremi sono ostili al sostegno all’Ucraina».
Crede che la Francia debba affrontare anche la riforma delle istituzioni?
«Abbiamo sempre guardato al semi-presidenzialismo e al suo sistema maggioritario come a un modello di stabilità. Viceversa, nel suo secondo mandato Macron ha già nominato quattro primi ministri e ora ne arriverà un quinto. Il centro ha ceduto e così è cresciuta l’instabilità. Forse per affrontare la crisi servirà inserire qualche elemento di rappresentatività rivedendo l’integralità del modello francese fortemente accentrato e privo di filtri e mediazioni capaci di attutire le crisi. Oggi alcuni, in Francia, guardano con invidia il modello italiano dei primi ministri tecnici, ma il sistema non sembra pronto ad assumere la responsabilità comune in una grande coalizione».