La tragedia della donna investita e uccisa a Milano da quattro bambini rom, tra gli undici e i quattordici anni, a bordo di un’auto rubata, è anche, altrettanto tragicamente, il simbolo – o la radiografia – di un’illusione che per decenni abbiamo coltivato: l’illusione che le zone a rischio delle periferie urbane siano un altrove, un problema separato, confinato ai margini, una geografia morale che appartiene alle vite degli altri.
Il dramma di Gratosoglio arriva a smentire questo racconto rassicurante: prima o poi, i buchi neri della modernità – quelle «no man’s land» dove il diritto si assottiglia fino a diventare invisibile – risucchiano anche la parte «integra» della città. Perché il margine è poroso, e non c’è barriera che tenga. Già gli studi del sociologo francese Loïc Wacquant hanno mostrato come le periferie a rischio non siano mai spazi «altri», ma zone di interscambio costante con il centro, confermando che l’idea di una separazione netta è una finzione, utile al ceto politico per ridurre il problema a una questione di ordine pubblico e al ceto benestante per evitarne il costo emotivo e fiscale.
Quella «marginalità avanzata» di cui parla Wacquant, tipica delle società post-industriali avanzate è, in effetti, il risultato di una condizione urbana prodotta dalla combinazione di segregazione spaziale, disoccupazione di massa e ritiro dello Stato sociale, ma anche dalle politiche penali che hanno sostituito le politiche sociali. Gratosoglio ci ricorda dunque che questi mondi non sono lontani: sono dentro le nostre città e, prima o poi, quando il collasso sociale diventa evento di cronaca, invadono la nostra stessa realtà, impattandola con esiti tragici. Eppure, di fronte a questa evidenza, la risposta politica si riduce a due reazioni specularmente fallimentari.
A destra – questa destra «law and disorder» – la retorica del finto rigore e dei proclami inutili – o lo sciacallaggio di chi, come il ministro Matteo Salvini, parla di radere al suolo il campo rom di via Salvanesco – vorrebbe far credere che basti un inasprimento penale a risolvere un problema che è prima di tutto sociale e culturale. Che deterrente può avere, ad esempio, a proposito della criminalizzazione dell’assenza scolastica prevista dal decreto Caivano, la minaccia di un processo per chi vive ai margini di ogni diritto, in famiglie senza capitale culturale, spesso in conflitto aperto con le istituzioni? Del resto, che cosa è stato lo stesso modello Caivano, sbandierato come laboratorio di recupero, se non una vetrina, un’operazione dimostrativa, con operazioni spot, qualche fondo straordinario e visite ministeriali? A sinistra, l’errore opposto: la condiscendenza travestita da solidarietà e facile sociologismo, i finanziamenti episodici – o a pioggia – per opere e associazioni che non incidono sulle cause profonde dell’emarginazione.
Una beneficenza senza progetto che finisce per istituzionalizzare la marginalità, trasformandola in una condizione cronica, in enclave stabili da cui non si esce. La verità è che una bonifica delle zone a rischio richiederebbe ben altro: anni di investimento continuativo, un’architettura istituzionale che tenga insieme presìdi scolastici, formazione professionale, lavoro, edilizia pubblica, assistenza familiare, repressione mirata della criminalità e soprattutto – parola quasi dimenticata – integrazione. Significherebbe progettare un’agenzia nazionale che sappia coordinare risorse, selezionare operatori, monitorare risultati, rendere conto di ogni euro speso. E soprattutto spiegare agli italiani – con una retorica assertiva e convincente, una grande retorica dell’integrazione – perché una simile impresa sarebbe un’assicurazione collettiva che conviene a tutti. Ma nessun governo, né di destra né di sinistra, si è mai intestato una strategia nazionale di questo tipo.
Perché? Eppure i numeri non sono ingestibili: campi rom, quartieri a rischio, sacche di degrado urbano nelle grandi città italiane certo non rappresentano un fenomeno marginale, ma nemmeno un’enormità insormontabile. Il problema è che una simile strategia costa, e tanto. Almeno quanto una legge finanziaria. Decine di miliardi, per un impegno di almeno dieci anni. In Scandinavia, questo investimento è stato fatto: il modello svedese e quello norvegese hanno scommesso sulla prevenzione sociale, riducendo drasticamente le aree di marginalità. Il costo iniziale è stato altissimo, ma il ritorno in termini di sicurezza, produttività e coesione ha ripagato ampiamente l’investimento.
L’Italia ha scelto invece un mix micidiale di retorica vacua, demagogia, repressione episodica e sussidi improduttivi, con servizi sociali depauperati, progetti educativi estivi che accolgono i bambini che già hanno genitori presenti e risorse culturali, mentre i più fragili restano fuori, un’edilizia popolare priva di manutenzione, ridotta a una galassia di graduatorie. In ogni città italiana, intanto, ci sono campi rom e quartieri invisibili che non compaiono nei piani urbanistici. Possiamo parlare senza dubbio di un disastro, dal quale si esce soltanto con un progetto che tenga insieme visione e concretezza, controllo e inclusione, capacità di incidere sul presente e di costruire il futuro.
Occorrerebbe il coraggio politico di dire che per un decennio la priorità nazionale sarà eliminare i buchi neri della modernità, e che questo costerà molto. Non è una questione di generosità: è calcolo razionale. Si tratta di decidere se pagare oggi in investimenti o domani in tragedie sempre più frequenti come quelle di Gratosoglio. Sarebbe la più grande riforma sociale del dopoguerra. Siamo disposti a realizzarla? O vogliamo continuare ad assistere a questo stucchevole balletto di accuse, alibi, slogan tra destra e sinistra; continuare a ignorare che esiste un problema di «marginalità avanzata» che ci riguarda tutti, salvo svegliarci solo quando degrado e violenza bussano alla nostra porta?