Il caso dei giornalisti di Al Jazeera uccisi da un missile israeliano si è aggiunto alle già ricche (e tragiche) cronache della guerra in Medio Oriente. Tel Aviv si difende dicendo che uno di quei giornalisti, Anas al-Sharif, era in realtà un terrorista di Hamas e che fosse lui il vero obiettivo del raid. Ma fin dove si può spingere l’iniziativa israeliana? Come si riconosce il confine tra il terrorismo di Hamas e la società civile palestinese? Lo chiediamo a Ernesto Galli della Loggia, storico e saggista tra i più importanti in Italia.
Professore, si può pensare che l’interconnessione di Hamas con la società civile possa essere spezzata attraverso un’azione selettiva come quella che ha colpito Al Jazeera?
«Di fronte a questo atto israeliano ci sono due possibili prese di posizione. La prima è quella di chi dice che è sbagliato uccidere i giornalisti e che chi li uccide è un assassino. È una presa di posizione immediatamente morale che però non entra nel merito dei fatti e si limita a giudicarli. La seconda, che secondo me è quella corretta, è chiedersi che cos’è un giornalista oggi e che cosa è stato il giornalismo nel secolo scorso. Per come Israele presenta il fatto, Anas al-Sharif non era semplicemente colluso con Hamas, ma ne era un dirigente. Prima di perderci in arabeschi moralistici o iperrealistici bisogna capire chi era questo signore. Era un semplice simpatizzante di Al-Fatah o era organico alla sua struttura di comando? Sono cose che fanno la differenza. Nel ventesimo secolo ci sono molti casi di giornalisti che hanno avuto una funzione ideologica e formativa nel regime di cui facevano parte».
Ad esempio?
«Il direttore della Difesa della razza, Telesio Interlandi, era un valentissimo giornalista ma anche il principale capo della propaganda razziale in Italia. Era un giornalista ma poi è diventato un’altra cosa. Soprattutto in momenti di crisi politica acuta i giornalisti sono costretti a prendere partito e diventano figure costitutivamente ambigue».
Però giustificando l’eliminazione dei giornalisti perché esponenti di un’associazione terroristica non si rischia di fare come quando si accusano gli avvocati dei mafiosi di essere a loro volta mafiosi? Al Jazeera è storicamente una tv di propaganda, ha svolto un ruolo ambiguo anche negli anni di lotta al terrorismo. Ma c’è un limite che è pericoloso superare, anche da parte di Israele.
«Forse non abbiamo ancora ben compreso cosa è stato il 7 ottobre. In quel caso non è stato rispettato alcun limite. Non dobbiamo dimenticare l’immagine di quel terrorista che, al telefono con la madre e con le mani sporche di sangue, si vantava di aver ucciso dieci ebrei. Questo fa saltare ogni soglia e ogni crinale».
Anche nelle coscienze di noi occidentali?
«Noi non siamo coinvolti. Tranciamo giudizi assistendo a quanto succede come se fosse un film. Ed è necessario fare la tara rispetto alle informazioni che ci arrivano. Leggevo che secondo le autorità palestinesi a Gaza sono stati uccisi 232 giornalisti e 380 feriti. Mi paiono numeri difficili da verificare. Agli occhi occidentali uccidere un giornalista significa non volere che qualcosa venga testimoniato. Ma bisogna capire di cosa stiamo parlando. Non è in discussione il fatto che sia sbagliato uccidere i giornalisti, il problema è se si tratta soltanto di giornalisti».
Senz’altro la guerra della propaganda è stata vinta da Hamas. Secondo lei in quali altri casi è più evidente questo?
«Vediamo tutti i giorni video di persone che lottano per ottenere del cibo. Quelle persone onestamente non mi sembra che stiano morendo di fame da settimane e settimane. Morire di fame significa avere volti scheletrici. La popolazione di Gaza che vediamo in televisione non mi sembra che presenti queste caratteristiche fisiche».
A proposito dell’accusa di genocidio a Israele cosa pensa?
«Quando si parla di genocidio si intende che l’esercito israeliano ha l’obiettivo di eliminare fisicamente la popolazione palestinese. Ma l’uso di certe parole legittima a credere anche a ciò a cui è molto difficile credere, ad esempio che l’esercito israeliano faccia il tiro al bersaglio sulla massa di persone riunite a chiedere del cibo».
La matrice ideologica di parte della maggioranza che sostiene Netanyahu e anche la violenza dei coloni in Cisgiordania ha favorito questo ribaltamento narrativo?
«Se parliamo dei coloni israeliani in Cisgiordania il discorso è diverso. È del tutto credibile che un colono spari sugli arabi, ma è una situazione diversa rispetto a quella di Gaza. Lì non si tratta di soldati dell’esercito israeliano ma di fanatici religiosi. Il problema è che la parola genocidio oscura tutte queste differenze».
Crede che la decisione di Netanyahu di occupare Gaza rischi di avere l’effetto di riprodurre il male del terrorismo invece di eradicarlo?
« Sì, ma è un esito che si è già in parte verificato. Inoltre, il fatto di aver colpito gli ospedali o i centri dell’Onu perché rifugio di terroristi ha fatto sì che l’opinione pubblica occidentale parli in larga misura di genocidio. Certo, più la cosa va avanti più questi eventi si moltiplicheranno. Di peggio può accadere solo che l’esercito israeliano passi per le armi qualsiasi palestinese si muova, ma personalmente non credo che questo accadrà. Il problema non è che Hamas ha infiltrato la società civile, ma che si fa scudo della popolazione e delle istituzioni civili per nascondersi. Questo rende, sul piano militare, difficile la sconfitta di Hamas e, sul piano delle perdite umane, terribilmente costosa la battaglia sul campo».
Secondo lei è vero che Netanyahu punta a prolungare la guerra per garantirsi la sopravvivenza politica?
«Certo, e non da oggi, ma da mesi. La strage del 7 ottobre ha prolungato di alcuni anni la vita politica di Netanyahu, che altrimenti a quest’ora sarebbe probabilmente in prigione. Non sappiamo però cosa sarebbe successo se al suo posto ci fosse stato qualcun altro. Ma bisogna sottolineare che Netanyahu è ancora sostenuto dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E su questo si misura anche la possibilità di parlare di genocidio».
In che senso?
«I nazisti cercarono in tutti i modi di tenere nascosto il genocidio agli occhi della loro stessa popolazione. Mi chiedo come sia possibile parlare di genocidio rispetto a Israele, che è una società democratica dove tutto accade sotto gli occhi di tutti».
Secondo lei c’è ancora la possibilità di realizzare la prospettiva dei “due popoli, due Stati”?
«È una prospettiva che non ha mai avuto grandi possibilità. Trent’anni fa fu respinta dalle autorità palestinesi. Oggi come oggi è una pura figura retorica, a meno che non si verifichi un terremoto politico, che potrebbe essere determinato anche da una clamorosa sconfitta di Hamas, perché a quel punto il fronte arabo potrebbe rientrare in campo con un suo progetto su un futuro Stato palestinese».
Questo riabiliterebbe la politica di Netanyahu?
«Il giudizio politico lo lasciamo ai posteri. Il difetto di Netanyahu è di non aver mai delineato quello che lui crede possa essere l’esito politico delle sue operazioni militari. Oltre a questo, Israele ha commesso errori clamorosi, come quello di non coinvolgere la Croce Rossa internazionale, a cui avrebbe dovuto chiedere di visitare gli ostaggi addossando ad Hamas la responsabilità di impedirlo».
Perché non lo ha fatto?
«Perché anche in Israele si nutre una certa diffidenza verso i popoli occidentali storicamente cristiani, a loro volta responsabili di secoli di antisemitismo cristiano».