Le foto dei soldati libici a Pisa e a Capo Teulada postate sui social svelano la manovra di Roma per formare i commando del Maresciallo che controlla la Cirenaica
L’esercito italiano addestra da tempo i soldati del Feldmaresciallo Khalifa Haftar in alcune basi in Italia. Lo hanno rivelato diverse fotografie postate sui social e raccolte dal Post, in cui compaiono militari libici in uniforme durante corsi di addestramento in strutture militari italiane, tra cui il Centro di paracadutismo di Pisa e la caserma Pisano di Capo Teulada, in Sardegna. Le immagini mostrano scene inequivocabili: soldati libici in posa accanto a istruttori italiani, carte d’imbarco rilasciate dal Comando operativo di vertice interforze (Covi) e attestati di brevetto militare firmati da ufficiali dell’esercito italiano.
Secondo il ministero della Difesa, che ha confermato la veridicità della notizia, questi corsi sono parte di un programma di addestramento finora non reso pubblico. Secondo la ricostruzione del Post, i militari libici coinvolti negli addestramenti italiani non sarebbero soldati qualunque ma farebbero parte di reparti d’élite come la brigata al Saiqa, le forze speciali fedeli a Haftar, e la 155esima brigata. Il caso è particolarmente delicato, a causa della complessa situazione libica.
La situazione libica
In Libia esistono due governi rivali: uno con sede a Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, e l’altro guidato dalle autorità della Cirenaica, con sede a Bengasi e di cui Haftar è l’uomo forte in qualità di comandante delle forze militari. Per la diplomazia italiana, Haftar resta un interlocutore necessario, anche se ufficialmente non legittimato. Le implicazioni politiche sono evidenti: l’Italia, per salvaguardare l’equilibrio nei rapporti con entrambe le fazioni libiche, ha dovuto scegliere una linea ambigua.
Se da un lato riconosce soltanto il governo di Tripoli e lo assiste al punto da sviluppare rapporti di vicinanza con i potenti capi-milizia che lo compongono (come il recente caso al-Masri ha dimostrato), dall’altro continua a coltivare relazioni con Bengasi, anche attraverso la cooperazione militare. Addestrare i suoi soldati, dunque, rappresenta un tacito compromesso e una strategia per non inimicarsi uno degli attori più influenti della Libia post-Gheddafi.
L’ambiguità di Roma
Questo approccio ambiguo e ambivalente è simboleggiato appieno dalla prassi diplomatica italiana: ogni visita ufficiale in Libia prevede infatti due tappe obbligate, Tripoli e Bengasi, per evitare tensioni. Nel 2020, per esempio, il mancato incontro con Haftar da parte dell’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio provocò il sequestro di due pescherecci italiani da parte delle forze del generale. I marinai furono rilasciati solo quattro mesi dopo, a seguito di una visita riparatrice dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Un evento che ben evidenzia il dilemma italiano in Libia: offrire sostegno agli attori locali appare come l’unico modo per evitare rappresaglia contro i nostri asset nella regione (oltre al naviglio civile, i siti energetici gestiti dall’Eni e il personale coinvolto in operazioni anti-terrorismo e di contenimento dell’immigrazione illegale), col rischio tuttavia che un giorno questi militari da noi addestrati finiscano per essere impiegati proprio contro l’Italia.