L’idea delle festività come “tregua” da difendere a tutti i costi: «A Natale si disputa un vero e proprio derby tra Nord e Sud. La partita è tra il cenone della vigilia e il pranzo di Natale. Il Sud preferisce il cenone, il Nord si festeggia di giorno, quando il clima è più mite»
La corsa ai regali, i cenoni e i pranzi luculliani, le vacanze prenotate all’ultimo minuto: raccontato così, il Natale sembra essersi ridotto al trionfo del consumismo. Una festa che di sacro e spirituale conserva poco o niente, che celebra l’opulenza in aperto contrasto con la povertà del Cristo appena nato, che accantona colpevolmente i valori religiosi.
Ma di quelle abbuffate, di quel relax, di quella tregua da una routine altrimenti soffocante abbiamo bisogno. E forse è proprio questo il “segreto” che consente al Natale di piacere a tutti, inclusi i non cristiani, e di sfidare i secoli. Ne è convinto Marino Niola, antropologo e titolare, tra gli altri, della cattedra di Miti e riti dell’alimentazione della gastronomia contemporanea all’università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli.
Professore, ci apprestiamo a festeggiare il Natale a pochi giorni di distanza dalla proclamazione della cucina italiana come patrimonio dell’Unesco. Che valore ha una simile dichiarazione?
«Ha un gradissimo valore. Anzi, in questo momento dell’anno rappresenta un motivo in più per festeggiare. Diciamoci la verità: Natale non è solo una festa dello spirito, ma anche una liturgia gastronomica. Senza cibo non è festa. Un Natale inteso come festa solo ed esclusivamente spirituale, dunque “smaterializzata”, sarebbe impensabile».
Lei dice che senza cibo non c’è festa. Ma perché, come “tutti i salmi finiscono in gloria”, anche tutte le feste finiscono a tavola?
«Perché sono i comportamenti particolari che distinguono un giorno normale da uno di festa. Chi crede in Dio partecipa alle funzioni religiose. Ma gli stessi cristiani sono figli di un Dio che, secondo i Vangeli apocrifi, amava il cibo, si congedò dagli apostoli con una cena e celebrò la propria Passione a tavola. Quindi sono il cibo e la convivialità che fanno la festa, piaccia o non piaccia».
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Questa convivialità unisce o divide ulteriormente il Nord dal Sud del nostro Paese?
«A Natale si disputa un vero e proprio derby tra Nord e Sud. La partita è tra il cenone della vigilia e il pranzo di Natale. Il Sud preferisce il cenone perché legato all’idea che la festa della nascita di Cristo si celebri con la messa di mezzanotte. Al Nord, invece, si preferisce festeggiare di giorno, anche perché il clima è più mite. Ancora, al Sud si consumano prevalentemente cibi magri come il pesce, visto che durante le vigilie è solitamente proibito mangiare grassi animali. Al Nord, invece, è tutta una “esplosione di grasso” tra capponi, arrosti e altre pietanze simili».
Quindi il Natale divide Nord e Sud più che unirli?
«No. Il minimo comune denominatore è l’abbuffata. Il resto sono abitudini stratificate e consolidate nel corso degli anni. E che, per la verità, si sono anche attenuate nel corso del tempo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, come le migrazioni interne, negli anni Cinquanta, abbiano rivoltato l’Italia come un guanto favorendo le contaminazioni tra usanze meridionali e usanze settentrionali. La prova è il panettone, dolce natalizio tipico del Nord, sulle tavole delle famiglie del Sud».
Il panettone è un simbolo del Natale. Quali sono gli altri e qual è il loro significato culturale e antropologico?
«Al Nord si preferiscono tacchini, capponi, zamponi, cotechini e tortellini in brodo per i motivi che abbiamo detto. Al Sud trionfa il pesce che è un cibo magro e povero. A Napoli, in particolare, il baccalà è gustato in diverse maniere, ma quello fritto non può mancare. E poi c’è il capitone, un serpente simile a quello che nel giardino dell’Eden tentò Adamo ed Eva: ucciderlo in casa e cucinarlo, come ancora fanno molte donne napoletane, è una sorte di rivincita sulla tentazione e sul peccato. Le lenticchie, invece, sono più trasversali: simboleggiano il denaro e sono un portafortuna, come tali gradite a qualsiasi latitudine».
Stesso discorso per i dolci?
«Gli struffoli sono un po’ come le lenticchie e tutti i “cibi seriali”: un segno di abbondanza, tanto è vero che spesso vengono serviti in un croccante a forma di cornucopia. I dolci senza grassi animali, ma addensati col miele, trionfano soprattutto al Sud. Spesso nascono nei conventi di cui portano ancora il nome: Divino Amore e Sapienza erano due monasteri napoletani, ma anche la sicilianissima Martorana nasce in un monastero».
Lei parla di abbuffate. E proprio questo, cioè il sacrificio della spiritualità sull’altare dell’opulenza, è uno degli argomenti più utilizzati dai detrattori delle feste di Natale…
«Sì, qualcuno insiste nell’accreditare l’idea del Natale come di una festa più ricca sul piano materiale che su quello spirituale. Ma non è così. Ogni epoca interpreta le feste a sua immagine e somiglianza».
Dunque che cosa rappresenta il Natale al giorno d’oggi?
«Oggi il Natale è soprattutto una tregua, una pausa nella vita frenetica quotidiana che ci riconcilia con gli altri e con noi stessi. Certo, è anche il trionfo del cibo e dei regali, cioè della civiltà dei consumi. Ma non c’è niente di male nel consumare. Anche i nostri nonni, che probabilmente vivevano la spiritualità del Natale con maggiore intensità, avrebbero consumato come e quanto noi, se solo avessero potuto. Ecco, credo che il Natale vada messo al riparo anche da una certa retorica – per così dire – pasoliniana».
È questo il “segreto” che consente al Natale di essere così resiliente e trasversale?
«In una civiltà che tende ad abolire i tempi festivi, Natale è l’unico tempo lungo. Non un solo giorno, ma un ciclo di giorni di festa. E la nostra società ha bisogno di una simile “pausa”. Che, tra l’altro, rimanda agli antichi rituali legati al sole che vince le tenebre, con le giornate che cominciano progressivamente ad “allungarsi”. Ecco, di questo trionfo della luce sul buio abbiamo tutti bisogno».
Lei è un “difensore” del Natale. Ma da chi e da che cosa va difesa questa festa?
«Il Natale va difeso a spada tratta, innanzitutto dalla retorica di cui abbiamo già parlato e poi anche dalle polemiche sterili. Penso al presepe: quale fastidio potrebbe mai dare un tale simbolo a chi professa altre religioni o non ne professa alcuna? Anzi, il presepe può essere uno strumento per integrare altre culture, sempre nel rispetto delle diversità. Censurarsi è un errore. Più saggio è ricordare come il Natale faccia bene a tutti, soprattutto ai legami sociali».


















