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Lega, alta tensione con FdI. Tentazione sabotaggio su legge elettorale e riforme

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Non c’è più la faccia sorridente degli alleati a coprire le tensioni. Lega e Fratelli d’Italia si guardano sempre più con sospetto. Strategie parallele, gelosie e piccoli sabotaggi reciproci. Roma è un campo minato e ogni passo falso si paga immediatamente nei territori. E mentre Matteo Salvini e Roberto Calderoli immaginavano l’entrata trionfale a Pontida, con autonomia differenziata e successore di Luca Zaia già in mano, la realtà gli ha sbattuto la porta in faccia: per ora ancora niente autonomia, niente annunci, solo nervi scoperti. Il raduno del Carroccio rischia così di diventare la fotografia di un partito diviso, dove la rivalità con FdI non è più solo dietro le quinte ma già in piena luce.

Niet, dicevamo. Ancora niente. Il via libera all’autonomia differenziata è rimasto nel cassetto e la festa di Pontida rischia di trasformarsi in una veglia funebre. Doveva essere l’incoronazione, il ritorno alla grandeur padana, la rivincita contro Giorgia Meloni. E invece, Roma ha preso tempo. Le resistenze di Palazzo Chigi e quelle di Forza Italia hanno congelato l’operazione Calderoli: le pre-intese, pensate per aggirare la sentenza 192 del 2024 con cui la Consulta ha azzoppato il disegno di legge, sono finite impantanate.

Protezione civile intoccabile, previdenza integrativa off-limits, sanità blindata: la rivoluzione federale si riduce a un brodino riscaldato. Risultato: Roma Capitale accelera sui poteri speciali, mentre Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria devono ingoiare l’ennesimo rinvio. Per Salvini, abituato a promettere l’autonomia come fosse il pane quotidiano, è uno smacco doppio: niente scalpo da esibire a Pontida, niente rivincita simbolica sul governo amico-nemico.

Saltato il colpo di teatro, restava l’annuncio del successore di Luca Zaia. Ma anche lì, porte sbarrate. Alberto Stefani, il vice segretario di via Bellerio, avrebbe dovuto raccogliere il testimone. La Meloni, però, frena: prima vuole capire come finirà la partita delle Marche. Acquaroli, candidato di Fratelli d’Italia, vola nei sondaggi, ma la Lega, dai fasti del 22,3% (139.438 voti), sarebbe sprofondata, secondo i sondaggi, al 6. Una disfatta. E in via Bellerio la matematica è chiara: se i numeri crollano così, altro che eredi, rischi di perdere perfino la cassaforte veneta. Da qui la possibile ritorsione: mettersi di traverso sul Premierato e complicare il percorso sulla riforma elettorale. La parola d’ordine dunque è: sabotaggio.

Il nodo è anche di stile. A Meloni non sono piaciute le derive “Vannacciane” di Salvini: sparate da parroco di campagna, accuse scomposte a Macron quando gli argomenti del declino della grandeur c’erano tutti ma si poteva dire tutto in altro modo. I suoi stessi colonnelli lo avvertono: «Stai sbagliando comunicazione». Ma il Capitano, per distinguersi dalla premier, ha solo una strada: radicalizzarsi, scivolare sul terreno scivoloso del generale Vannacci. Un alleato ingombrante, che in Toscana ha seminato più imbarazzi che voti, innescando fughe, dimissioni di massa (clamoroso il caso Viareggio con la storica segretaria Pacchini) e perfino il malumore del governatore Fontana: «Col cavolo che in Lombardia ci facciamo vannaccizzare».

Non basta. Anche in Calabria la frattura si allarga. Qui la Lega non si limita a partecipare: ci mette la faccia e l’organizzazione, grazie soprattutto al lavoro di Claudio Durigon. Il sottosegretario al Lavoro, con delega al Sud, si è impegnato pancia a terra per sostenere il governatore azzurro Roberto Occhiuto, costruendo un’alleanza operativa con Forza Italia che di fatto taglia fuori Fratelli d’Italia. Durigon supervisiona incontri, tavoli territoriali e strategie sul campo, trasformando la presenza del Carroccio in Calabria da semplice supporto elettorale a manovra politica concreta. Una scelta che non è sfuggita ai Fratelli già infastiditi dalla scarsa mobilitazione leghista in altre regioni e dalle trame che minano l’unità del centrodestra.

La parabola di Vannacci in Toscana è un caso da manuale. Promosso vice segretario in una convention fiorentina (altro segno del destino), il generale ha scelto come capolista a Lucca il suo braccio destro Massimiliano Simoni, paracadutista in congedo, imprenditore ed ex socio fondatori di Alleanza nazionale. Una lista che lo stesso Vannacci ha presentato a Viareggio con toni militareschi e proclami da caserma: «Puntiamo al 90%». Battute a parte, l’unico dato certo è che la Lega in Toscana è a un passo dall’irrilevanza.

Ma il problema non si limita al capolista o alla simbologia delle percentuali. In Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Toscana e persino in Veneto, la Lega sente crescere malumore e insofferenza interna contro la “vannaccizzazione”. L’ombra di una deriva più rigida, più identitaria e più aggressiva su tutto, dall’ideologia alla comunicazione, spinge alcune sezioni a chiedere maggiore autonomia decisionale. La frattura tra l’ala radicale e quella pragmatica rischia di diventare un solco incolmabile.

E poi c’è la politica estera, la frattura più difficile da ricucire. Entrambi trumpiani, sì, ma su fronti opposti quando si tratta di Ucraina, Europa, riarmo. Divergenze troppo marcate per restare sotto il tappeto. La maggioranza resta «coesa quando c’è da votare», ma è divisa su tutto il resto.

A Pontida, quindi, autonomia in tono minore, niente erede di Zaia, niente unità di facciata. Solo la nostalgia di un partito che fu, i malumori interni sempre più rumorosi, la rivolta dei territori e la certezza che la “vannaccizzazione” rischia di essere la malattia terminale del Carroccio. Salvini lo sa, e per questo alza i toni, brandisce la differenza come fosse un’arma. Ma dietro le sparate, dietro il folklore da palcoscenico, resta un partito che scricchiola e una leadership che, senza autonomia e senza Nord, rischia di restare sospesa nel vuoto.

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