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Iran, schiaffo agli ayatollah: 2mila donne alla maratona senza il velo

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Revere Beach è una lunga spiaggia a pochi chilometri da Boston, nel Massachusetts: era, a fine Ottocento, la prima spiaggia pubblica catalogata come tale negli Stati Uniti, senza bisogno di tante Bolkenstein. Nell’estate del 1907 una nuotatrice australiana, Annette Kellerman, riconosciuta come la prima syncronette del mondo quando il nuoto artistico era puro spettacolo e non il faticoso sport che è adesso, si presentò con un costume intero che lasciava scoperti collo, braccia e gambe. Scostumata! Gli agenti di guarda le intimarono di coprirsi, come era uso fra le bagnanti dell’epoca, Annette rifiutò: la dichiararono in arresto.

Le parole di Annette

«Io arrestata! – raccontò molti anni dopo a un giornale di Boston la signora quando era ormai una leggenda del nuoto agonistico o simile, visto che aveva tentato pure di attraversare la Manica – Eravamo tutti terribilmente scioccati, soprattutto mio padre, perché per lui ero “la sua bambina innocente”. Ma il giudice fu poi molto gentile e mi permise di indossare il costume, a patto che portassi un mantello integrale fino alla riva del mare».

La maratona in Iran

L’isola di Kish, a sud dell’Iran nel Golfo Persico è una specie di zona franca destinata al turismo di lusso, tra resort e leccornie d’ogni tipo, sulle quali il regime di Teheran ha fin qui chiuso un occhio (“pecunia non olet”, come dicono abbia risposto l’imperatore Vespasiano al figlio Tito che lamentava la scarsa eleganza della tassa sull’urina che l’imperatore, alle prese con problemi di bilancio anche se non c’era ancora Bruxelles con le sue regole, aveva deciso di eliminare la gratuità dei gabinetti pubblici).

La t-shirt rossa al posto del velo

Fino a pochi giorni fa, quando le donne persiane si sono rese protagoniste di un atto di ribellione: quasi duemila di loro si sono presentate alla partenza di una maratona organizzata laggiù (maratona non in senso tecnico: era lunga 0 chilometri e non 42,195, ma la sua scia rischia di essere assai più lunga) non solo tutte indossando una t-shirt rossa, come fecero Panatta e Bertolucci nella famosa finale di Davis in Cile 1976 quando non misero l’azzurro ma il rosso di sinistra che facesse infuriare Pinochet più d’un toro che vedesse una muleta e nel contempo riscaldasse, con il fuoco del colore, i cuori dei cileni oppressi. Le persiane, a maggior segnale di protesta, non hanno indossato l’hijab, il velo previsto, e la cui assenza è un’infrazione resa ancora più punibile dalla legge “castità e velo” che è stata resa più rigida nel 2024, secondo l’antico credo, smentito dovunque e ogni giorno e ogni notte, che l’aumento delle pene e della repressione produca automaticamente la decrescita delle infrazioni.

Il mancato arresto

Violazione della pubblica decenza! Sacrilegio! Ma se i poliziotti di Revere Beach ebbero buon gioco contro Annette che era una sola, i pasdaran si sono trovati a cattivo partito: non erano certo in numero sufficiente per arrestare le almeno duemila maratonete. Si sono “consolati” portando in carcere due degli organizzatori della gara. Ha detto, citata dalle cronache, una testimone oculare, Ghazaleh, una professoressa che da due anni corre a capo scoperto, «una immorale la puoi arrestare, ma duemila non è poi così facile».

Il diritto allo sport per le donne

Le donne hanno faticato non poco per conquistare il diritto allo sport (come del resto molti altri diritti, quasi tutti, e per un gran numero di questi stanno lottando ancora). Per limitarsi alla partecipazione, basti ricordare che la prima a registrarsi ufficialmente come concorrente alla maratona di Boston, Kathrine Switzer, poté farlo solo nel 1967, settant’anni dopo la prima edizione, e riuscì nell’iscrizione con un sotterfugio, giacché nel modulo non scrisse il nome di Kathrine Virginia ma semplicemente le iniziali K. V. che magari furono prese per un Kevin Viktor. E, quanto all’abbigliamento “tecnico” hanno avuto i loro problemi nel corso del tempo, combattute tra chi le voleva scoperte e chi coperte.

L’hijab al centro del dibattito

L’hijab è stato spesso oggetto di contenziosi, come le tute integrali, specie per le atlete di religione musulmana. Quelle di loro che volevano essere più “libere”, fisicamente e non solo, come l’algerina Hassiba Boulmerka, fondista olimpionica, doveva andare ad allenarsi fuori dal territorio algerino dove, se compariva a gambe nude, finiva per essere oggetto di sassaiole da parte degli islamisti.

Le cuffie e il Qr Code

In Inghilterra una associazione che si chiama “Black Swimming Association” ha dovuto lottare per far approvare una cuffia adatta a contenere le chiome rasta delle nuotatrici. Al contrario, poi, una squadra di pallavolo femminile ha trovato una sponsorizzazione, sempre in Inghilterra, purché il “QR” che indirizzava direttamente al sito internet dello sponsor stesso fosse piazzato sul loro “lato B” giacché una ricerca di mercato aveva appurato che si trattava del punto più guardato e fotografato delle atlete. Del resto anche per cronache e commenti si è passati da “un filo di perle e un filo di trucco” delle annunciatrici di un tempo a “un filo di stoffa” dell’attualità versione Onlyfans.

Sabalenka contro le trans nel tennis

Le donne, poi, si trovano adesso di fronte a una nuova sfida: quella delle “transgender”. Si discute molto, nella scienza teorica e nella pratica, sulla loro partecipazione allo sport femminile. È appena stata tranchant la campionessa di nuoto Sabalenka con il suo no: «Gli uomini biologici avrebbero vantaggi enormi» ha detto. Però poi, siccome per l’appunto “pecunia non olet” ha accettato l’ingaggio per una nuova “Battaglia dei Sessi”, tipo quella di Billie Jean King contro Bobby Riggs: affronterà l’australiano Kyrgios a fine dicembre in uno spettacolo donna contro uomo. In Arabia. La transgender no, il “macho” sì?

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