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Suchorucenkov, il Merckx dell’est che non poté sfidare gli Usa

Sergei Sukhoruchenkov Ebbe una sola occasione olimpica: Mosca 1980. Sarebbe stato bello vederlo affrontare lungo le strade della capitale sovietica l’astro nascente americano, Greg LeMond, ma il presidente Carter non volle


Eddy era appena sceso dalla bici (l’ultima corsa su strada il 19 marzo 1978, l’Omloop van het Waasland, a Kemzeke, villaggio belga nelle sue Fiandre: il giorno prima s’era disputata la Sanremo senza di lui che la aveva corsa dieci volte e vinta sette negli ultimi 12 anni) e già il mondo del ciclismo, e non solo, cercava il “nuovo Merckx”, che ancora non ha trovato, o forse sì, Tadej Pogacar. Merckx lo chiamavano “il Cannibale” per via della sua smania di vincere sempre e tutto, grandi Giri, grandi classiche, mondiali, record dell’ora, corsette o circuitini che fossero: l’aneddotica vuole che quel soprannome che gli si marchiò addosso (i suiveurs adoravano e adorano parlare per metafore e iperboli facenti riferimento a qualità fisiche, origini territoriali o altri particolari: Coppi era “il campionissimo” o “l’airone”, Bartali “Ginettaccio”, Binda “il trombettiere”, Guerra “la locomotiva umana”, Hinault “il tasso”, Pantani “il pirata”, Indurain “Miguelòn”, Bettini “il grillo”, Nibali “lo squalo dello stretto”, Chiappucci “El Diablo”, Cipollini “il Re Leone”, per non dirne che un po’) fosse in realtà la creazione di una bambina di 12 anni, la figlia dodicenne del ciclista francese Christian Raymond, non memorabile per sue vittorie. Fu durante un Tour, quello del 1969, il primo dei cinque che vinse ed anche il primo cui partecipava, che la bambina chiese un giorno al papà come andassero e le cose e questi, parlando di Merckx, rispose “non ci lascia neanche le briciole!”. “Ma allora è un cannibale” fu il commento della piccola, e “il Cannibale” fu.

Il primo indiziato di “merckxitudine” fu uno che, per questioni di burocrazia internazionale, un Merckx non sarebbe potuto diventare mai: era sovietico, e dunque professionista all’occidentale non sarebbe potuto farsi mai, condannato a rimanere tutta la vita “dilettante di Stato”, a maggior gloria sportiva dell’Urss. Fece solo un po’ di carriera nell’Armata Rossa e ne scalò la gerarchia fino al grado di capitano, il che garantiva qualche privilegio e qualche comodità che ai compagni proletari ordinari erano negati. Si chiamava Sergej Nikolaevic Suchorucenkov (grafia difficile) ed era nato nel 1956 nel villaggio di Trostnaya, verso la città di Brjansk, dove si toccano Russia, Ucraina e Bielorussia.

Aveva cinque anni Sergej quando fu messo per la prima volta in bicicletta da un suo fratello maggiore, Viktor: doveva servire al piccolo per andare alla scuola che si trovava a qualche chilometro dalla casa di campagna dove viveva la famiglia contadina. A Viktor la bici era servita anche per diventare un “ciclista vero”, per quanto dilettante: partecipò pure a un quartetto della 100 chilometri mondiale con la maglia CCCP, cioè dell’Urss. Era il 1967 e quei mondiali si svolsero ad Heerlen, in Olanda e la prova fu vinta dalla “famiglia Petterson”, i quattro fratelli svedesi Gosta, Ture, Erik e Tomas, al primo dei loro tre successi iridati consecutivi nella specialità. Il percorso casa-scuola-casa fu per Sergej la vera palestra: è quel che fanno gli atleti di lunga corsa sugli altipiani di Kenya ed Etiopia. Fin da bambini vanno a scuola correndo scalzi, e poi da grandi molti di loro diventano campioni, con le scarpe (ed anche con qualche altro “aiutino”, a dirla tutta, e non sono gli spinaci di Braccio di Ferro). A Sergej è capitato con la bici. Ed alla fine degli Anni Settanta diventò “il Merckx dell’Est”.

Vinceva tutto, vinceva sempre: non il Tour dei grandi né il Giro, che questi erano cose da professionisti ed erano perciò proibite al suo status burocratico di dilettante: un comunista che facesse dello sport la sua professione ufficiale era una bestemmia ideologica, un cane in chiesa. Gli restavano, però, tre grandi prospettive: il Tour de l’Avenir (lo aveva vinto anche Gimondi dilettante), la Corsa della Pace, che portava i ciclisti in giro per Cecoslovacchia, Germania Est e Polonia con qualche incursione anche in altri Paesi d’Oltrecortina (del resto se il Giro d’Italia è partito pure da Israele e dall’Irlanda, e la Vuelta di Spagna dal Piemonte, perché no?), e il Giro delle Ragioni, che veniva organizzato in Italia ed aveva colorature ideologiche, giacché Eugenio Bomboni lo metteva su per conto de “L’Unità”, glorioso giornale del Partito Comunista, ma anche con qualche cedimento al “tengo famiglia”, visto che lo sponsor era americano e la maglia di leader era a stelle e strisce, fondo blù, e il ponte di Brooklyn in bella vista: lo sponsor era la gomma del Ponte. Queste tre gare Sukhoruchenkov le vinse tutte e tre, anche un paio di volte ciascuna. Ci aggiunse altri vari traguardi, come un Giro di Cuba, un Giro del Cile, un Giro di Crimea, un Giro dell’Urss e, soprattutto un oro olimpico che era il massimo per un dilettante, anche perché a quei tempi i professionisti ufficiali erano banditi dai Giochi (furono ammessi da Atlanta ’96, dopo che il grande tabù era stato infranto dai professionisti del basket con il Dream Team e gli assi dell’Nba a Barcellona ’92).

Ebbe una sola occasione olimpica Sukho, come veniva chiamato e titolato superando le difficoltà dell’impronunciabile e meno ancora decrittabile cognome cirillico. E quella possibilità, oltre tutto, era un obbligo: Mosca 1980. Sarebbe stato bello vederlo affrontare lungo le strade della capitale sovietica l’astro nascente americano, Greg LeMond, ma il presidente Carter non volle. Così dovette accontentarsi dell’impresa solitaria staccando la concorrenza per 2:58 minuti, cioè quasi tre, il massimo distacco fin lì inflitto da un olimpionico alla concorrenza, nella quale, comunque erano nomi buoni per il futuro come l’olandese Van der Poel o l’irlandese Stephen Roche che poi avrebbe fatto, lui sì, un’impresa “alla Merckx”, l’incredibile triplete Giro-Tour-mondiale in una stessa stagione.

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