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Oro di Bankitalia, la polemica inutile che nasconde un Paese in declino

Il dibattito sterile che non cambia nulla ma rivela un Paese in declino, tra populismi, scelte sbagliate e mancate riforme strutturali

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Alla fine del suo editoriale sul Corriere della Sera di ieri, Carlo Cottarelli – dopo aver spiegato esaustivamente l’assoluta inutilità dell’emendamento di Fratelli d’Italia sulla proprietà dei 300 miliardi di oro di Bankitalia – si chiede provocatoriamente se non valga la pena anche specificare che pure i 3000 miliardi di debito pubblico “appartengono al popolo”, per evitare che il suddetto popolo si senta troppo ricco.

Le riserve auree

Ricordiamo brevemente di cosa si parla. Tutte le banche centrali del mondo detengono riserve, al fine di garantire la solidità del sistema monetario internazionale e intervenire in caso di emergenze particolarmente gravi. Queste riserve sono sia in valuta estera che in oro, per la semplice ragione che il metallo prezioso, essendo non correlato al paniere delle valute, riduce il rischio di portafoglio delle banche centrali. La proprietà di queste riserve (sia in valuta che in oro) è assolutamente irrilevante: si può argomentare che, essendo la Banca d’Italia un istituto di diritto pubblico, nella sostanza la proprietà sia già del popolo italiano.

Ma in ultima analisi la questione che conta è solo una: la detenzione dell’oro presso le banche centrali, così come la sua funzione, è garantita dai Trattati europei, e non potrebbe essere cambiata con una legge. E anche se cambiasse, non muterebbe di una virgola la situazione attuale, né darebbe nessun tipo di diritto al governo di turno di poter disporre di quelle risorse.

La domanda, diceva l’indimenticabile Gigi Marzullo, sorge quindi spontanea: ma allora che bisogno c’era di presentare, e sostenere così a lungo e con così tanta determinazione, un emendamento del genere?

Le finalità dell’emendamento presentato da FdI

Il sottoscritto si è dato sostanzialmente due risposte.

La prima riguarda un fatto che, per quanto le componenti più responsabili della maggioranza si sforzino di occultare il più possibile, rimane in tutta la sua tragicità: nella compagine parlamentare e governativa che da più di tre anni guida il nostro Paese, nonostante incredibili passi in avanti rispetto alle cialtronate del decennio scorso, permane una notevole componente terrapiattista e populista. Che liscia il pelo ai no vax, accarezza i deliri di chi è ossessionato dal gender, usa il panpenalismo come arma di populismo giudiziario, non ratifica la riforma del Mes (e ora ne chiede addirittura lo scioglimento).

Si tratta di niente più che deboli tracce del populismo sovranista che, come dicevamo, imperava incontrastato nella Lega e in Fratelli d’Italia nella seconda metà del decennio scorso, consentendo a quei due partiti di raccogliere congiuntamente il 40% dei consensi e conquistare la leadership del centrodestra post-berlusconiano. Ma più che sufficienti a fare danni, così come hanno fatto danni le timidezze sul fronte della promozione della concorrenza e l’interventismo d’altri tempi sul settore bancario.

La seconda risposta è di natura prettamente comunicativa. La sparata populista-terrapiattista non serve solo a rassicurare chi, all’interno di quello schieramento, populista-terrapiattista lo è ancora convintamente. Ma anche, molto più semplicemente, a occupare gli spazi mediatici che il sistema dell’informazione dedica alla manovra di bilancio, evitando così che si parli di ben altro.

E sì che “di ben altro” di cui parlare ci sarebbe, eccome.

Un Paese a rischio deindustrializzazione

Ieri Istat ci ha ricordato che il livello della produzione industriale non solo è ancora più basso dell’epoca pre-Covid, ma ha perso circa dieci punti negli ultimi quattro anni. Questi numeri, che cominciano a rendere palese un vero e proprio rischio di de-industrializzazione di uno dei paesi del G7, non dovrebbero stupire più di tanto: il costo dell’energia, l’input primario per il settore industriale, è stabilmente superiore del 30-40%  rispetto agli altri paesi europei; la partita su alcuni comparti industriali storici – come acciaio e automotive – è ormai praticamente e tragicamente chiusa, con il crollo verticale della produzione Stellantis e la crisi a questo punto probabilmente irreversibile dell’ex-Ilva.

E allo stesso tempo, non c’è alcun concreto segnale che in Italia nei prossimi anni possano aver sede in proporzioni rilevanti alcune industrie del futuro: pensiamo alla triste parabola della giga factory per batterie di Termoli, o alle incertissime prospettive sulle infrastrutture di calcolo per intelligenza artificiale, su cui siamo disperatamente appesi alla sola opzione – benché da custodire gelosamente – del Tecnopolo di Bologna.

I problemi del terziario

E se questa è la drammatica situazione dell’industria, niente di buono arriva dal settore terziario. Le cui storiche problematiche (dimensione ridotta e scarsa produttività) sono acuite dalla assoluta mancanza di qualsivoglia politica che ne accresca il grado di concorrenzialità, essendo questa maggioranza – come del resto l’opposizione del Campo Largo – pronta a fare denuncia alla più vicina Procura della Repubblica non appena qualcuno pronuncia parole come “mercato”, “liberalizzazione”, e “concorrenza”.

Questa è la situazione sui due comparti – industria e terziario – che costituiscono circa il 90% del Pil sul lato dell’offerta (con il governo che, non a caso, sembra concentrato solo sul 10% della filiera agro-alimentare); e anche se si guarda allo stesso oggetto misterioso – il Pil – dal lato della domanda, l’analisi non può che essere impietosa.

Le recenti tornate di rinnovi contrattuali, che il governo sta cercando di favorire con alcune misure di detassazione selettiva, hanno messo una pezza, che tuttavia lascia scoperto gran parte del buco: il potere d’acquisto degli stipendi italiani è in forte calo dal post-Covid, e la politica fiscale sembra più concentrata su alcune misure spot – come l’ininfluente taglio di 2 punti dell’aliquota Irpef del secondo scaglione – piuttosto che su un credibile e pluriennale piano di riduzione della pressione fiscale sul ceto medio più fiscalmente penalizzato del mondo occidentale.

Il ceto medio stretto tra tasse e burocrazia

Il Partito Liberaldemocratico ha proposto al governo di rinunciare alle due misure più inutili e costose di questa Legge di Bilancio (l’anticipo temporaneo dell’età pensionabile e la rottamazione delle cartelle) per usare quelle risorse per ridurre di 10 (e non 2) punti l’aliquota nella fascia tra i 50 e i 60 mila euro di imponibile annuo lordo. Questo avrebbe dato un primo sollievo vero ai “muli da soma” di questo Paese: un ceto medio che arranca tra tasse e burocrazia, e invece viene dipinto come privilegiato sia da destra che da sinistra.

Avevamo anche proposto una riforma strutturale del meccanismo di contrattazione collettiva, decidendoci a lasciare il livello nazionale come rete minima di protezione e lasciando alla contrattazione territoriale – opportunamente disegnata e incentivata fiscalmente – il compito di inseguire e provocare gli aumenti di produttività del lavoro che, non lo si ricorderà mai abbastanza, sono l’unica possibile causa di aumento strutturale e sostenibile delle retribuzioni degli italiani. Ma tutte queste proposte non sono state prese in considerazione.

La cosa più tragica di tutta questa storia è che è la politica stessa a sembrare impotente rispetto a questi scenari economici, esattamente come lo è di fronte a quelli geopolitici. La politica italiana sembra essere ormai spettatrice passiva di dinamiche che non vuole comprendere, non comprenderebbe se lo volesse, e anche se comprendesse giudicherebbe troppo complicate da risolvere.

Per cui, in mancanza di altro, ci si attrezza a intrattenere il pubblico con diversivi semplici (come la sciocchezza dell’oro di Bankitalia) e perpetuando la contrapposizione bipolarista che almeno fornisce una motivazione alle proprie truppe, e cioè evitare che “vinca il nemico”.

Resta solo da capire fino a quando questa situazione possa andare avanti.

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