La maggioranza sogna un arbitro che non fischi mai fallo. Ma chi chiedeva l’impeachment oggi si erge a paladino del Colle
L’assedio è iniziato mesi fa. Non contro l’opposizione — troppo impegnata a ritrovarsi per essere pericolosa — ma contro l’inquilino più silenzioso e allo stesso tempo più ingombrante della Repubblica: Sergio Mattarella. Nel Palazzo lo chiamano, con un misto di ironia e timore, «il partito di Mattarella». Non esiste, naturalmente. Eppure tutti ne parlano, tutti lo evocano, tutti lo usano. Perché, quando la destra attacca il Colle, non sta parlando di ciò che c’è, ma di ciò che teme.
Il capogruppo FdI Galeazzo Bignami mette nero su bianco un comunicato che sembra scritto per sbaglio. Il mittente non è un parlamentare qualunque: è il capogruppo del partito della presidente del Consiglio. Dunque, come ha scandito Rosy Bindi, «è impensabile che quelle parole siano state pronunciate senza che Meloni lo sapesse».
Ed è proprio qui il punto: che ci sia o non ci sia la mano della premier, la sostanza non cambia. L’obiettivo è sempre quello: “il partito di Mattarella”, ovvero il fantasma di un centro largo e trasversale che, agli occhi della destra, si muoverebbe come un’insegna al neon sul Colle, pronto a coalizzare cattolici moderati, pezzi di Pd, la sinistra riformista, gli scontenti del civismo liberale.
Una sorta di lista civica dal volto rassicurante – Ernesto Maria Ruffini in testa con il suo progetto dei comitati Più Uno – capace di parlare a chi «non crede più che la politica possa cambiare la vita», come ha detto lui stesso. Un campo aperto, largo, liquido: insomma, tutto ciò che il centrodestra non vuole che esista.
I sospetti sul Colle
Ed è qui che comincia la guerra dei sospetti. Perché quando un consigliere del Quirinale, come Garofani, sussurra in un cocktail-bar un’opinione privata, subito diventa la prova generale del golpe bianco. Garofani, ex direttore del Popolo e della Discussione, è troppo vicino all’universo culturale del Colle per poter dire una frase senza che qualcuno non veda venire a galla il periscopio di un piano segreto. Non importa che Mattarella in 8 anni di mandato non abbia mai sgarrato di un millimetro dal ruolo di arbitro. Per la destra più nervosa è comunque “l’altro”: quello che crede all’Europa, sostiene l’Ucraina “senza se e senza ma”, difende la Nato e soprattutto l’indivisibilità della Repubblica, frenando autonomia differenziata e premierato. Due cavalli di battaglia che oggi arrancano più di quanto Meloni e Salvini ammettano.
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E allora via alle insinuazioni: il Colle sarebbe il “luogo dei complotti”, il laboratorio dove si costruisce l’alleanza-anti-Meloni, la cabina di regia occultata dietro la figura di Ruffini o la mobilitazione spontanea — forse troppo spontanea — dell’associazione Primavera di Vincenzo Sparagna, dei riformisti del Pd, degli ex renziani e dei cattolici democratici. Insomma, un’operazione camaleontica che mette insieme tutto ciò che la destra non controlla. Perfetto per diventare la manovra di distrazione di massa del momento.
Le reazioni? Un manuale di imbarazzi e contraddizioni. Forza Italia si muove come chi cammina su un cristallo sottile: da un lato esprime “massima fiducia” in Mattarella, come ha dichiarato Zanettin, dall’altro evita persino di nominare l’imbarazzante esternazione dell’alleato di governo. Una difesa sussurrata, quasi col timore di disturbare la premier: istituzionale per dovere, cauta per necessità.

La Lega tace, che in politica è spesso più rumoroso di un urlo. Azione parla di «tentativo brutale di delegittimazione», mentre Richetti ricorda che «il Capo dello Stato non si mette mai in mezzo alla polemica politica». Bonelli di Avs parla di comportamento «gravissimo», Italia Viva osserva senza esporsi troppo.
I “difensori” del Quirinale
E poi c’è il M5S, il caso più emblematico: oggi paladino del Quirinale, ieri promotore dell’impeachment. Vittoria Baldino, in aula, parla di «atto intimidatorio» e accusa Meloni di voler costruire il suo ennesimo nemico immaginario. Ma il paradosso resta lì, scintillante: gli stessi che nel 2018 portarono in Parlamento la messa in stato d’accusa del Presidente oggi si scoprono custodi della sua integrità istituzionale. Anche questo, in un certo senso, è il segno dei tempi: l’opposizione cambia idea a seconda dell’avversario del momento. Il Pd, per voce di Serracchiani, incalza: «attacco deliberato e mirato, Meloni lo fermi». E la stessa Bindi che ripete: «il presidente dà fastidio perché fa quello che deve fare: rispetta la Costituzione».
Questa è, in fondo, la chiave: non è Mattarella a essere cambiato. È il contesto che, con la prospettiva del decennio meloniano — pretende un arbitro che arbitri meno. Che fischi meno falli. Che magari chiuda un occhio sulle intuizioni più ardite del governo. Mattarella non lo fa. E per questo, in certi ambienti, diventa il capo occulto dell’opposizione. Una caricatura perfetta per le esigenze narrative del momento. Il partito di Mattarella non esiste.
Ma gli attacchi al Colle sì, e sono sempre più scomposti. Perché quando si ha paura di ciò che potrebbe nascere, spesso si preferisce attaccare ciò che c’è. Anche se si tratta della più alta carica dello Stato — soprattutto quando l’unico vero contrappeso a Palazzo Chigi resta proprio lui: l’arbitro che non finge di non vedere.










