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Se la sinistra confonde giudici e sacerdoti

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L’approvazione della riforma sulla separazione delle carriere fa discutere. Ma la sinistra sembra aver dimenticato la differenza tra verità discutibili e assiomi

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Ogni nazione ha la sua religione laica. In Francia è la République, in Inghilterra la Rule of Law, in Italia – a periodi alterni – la magistratura. Quando il cittadino medio perde fiducia nei partiti, nella stampa, nei sindacati, si rifugia nel mito del giudice integerrimo, del pubblico ministero inflessibile, dell’uomo o della donna “che cerca la verità”. È un riflesso quasi antropologico: al tramonto delle ideologie, resta la fede nella giustizia. E tuttavia, come tutte le fedi, anche questa genera eresie. Arriva il ministro Carlo Nordio con la sua aria da umanista giuridico d’altri tempi, e propone una cosa apparentemente semplice: separare la carriera dei giudici da quella dei pubblici ministeri. Ex magistrato e liberale dichiarato, il ministro oggi meloniano propone di distinguere nettamente chi accusa da chi giudica. La sinistra reagisce come se avesse detto di voler abolire il principio di eguaglianza.

Giocatori e arbitri

Chi è cresciuto in una cultura postcomunista tende a identificare l’autonomia della magistratura con una sorta di baluardo contro l’autoritarismo politico. Dopo le stagioni di Tangentopoli e delle leggi ad personam, ogni tentativo di riforma appare come una vendetta del potere esecutivo contro il potere giudiziario. Ma se si spoglia la questione delle sue passioni ideologiche, resta una domanda di filosofia del diritto: è giusto o sbagliato che chi accusa e chi giudica appartengano alla stessa carriera? Immaginate un arbitro che, finita la partita, il giorno dopo si metta la maglia di una delle due squadre.

Non servirebbe la malafede per far crollare la fiducia nel campionato: basterebbe la confusione dei ruoli. Dicono i magistrati che si tratta di casi molto rari, bene, la separazione delle carriere servirebbe ad evitare anche questa spiacevole rarità: non a punire qualcuno, ma a ripristinare una distanza, un principio di igiene istituzionale. Hans Kelsen, che sognava un diritto puro, avrebbe detto che la giustizia non si misura sul risultato, ma sulla coerenza delle sue forme. E una forma coerente è quella in cui ogni attore conosce il proprio ruolo: chi accusa, accusa; chi giudica, giudica.

La verità giudiziaria non è verità metafisica

La verità, in un processo, non dovrebbe nascere dal buono o dal cattivo rapporto tra le toghe, ma dal conflitto regolato tra tesi opposte. Si sente dire dai fautori della carriera unica che pm e giudici condividerebbero il medesimo obbligo professionale di cercare la verità, a differenza degli avvocati destinati a sostenere soltanto le tesi utili alla salvaguardia dei propri clienti. Ecco entrare in scena il fantasma più ingombrante: la verità giudiziaria. Cosa intendiamo con il concetto di “verità giudiziaria”? Un filosofo direbbe che si tratta di una verità  procedurale: ciò che si può dimostrare in base alle prove e alle regole del processo. Non è la verità metafisica, ma solo quella che un sistema giuridico può sopportare senza collassare. In questo senso, il giudice è l’unico che – almeno simbolicamente – si avvicina alla verità. Il pubblico ministero, invece, è un narratore: propone una storia dei fatti, un’ipotesi, una costruzione logica. Il suo compito non è essere veritiero, ma verosimile. L’avvocato difensore fa la stessa cosa, dall’altro lato del tavolo. Entrambi costruiscono argomentazioni, retoriche, suggestioni. Il giudice, come un lettore di Platone costretto a scegliere tra due sofisti, decide quale discorso regge di più. Insomma, nel teatro confuso della politica italiana, ci sarebbe almeno un gesto possibile: riconoscere che secondo ragione la giustizia non può essere la fabbrica della verità.

I cortocircuiti della sinistra

Michel Foucault – che la sinistra tradizionale ha letto distrattamente – ci aveva detto di più: la verità è un effetto del potere, una costruzione sociale, non una rivelazione divina. Essere di sinistra, un tempo, significava diffidare delle verità del potere. Oggi, paradossalmente, vuol dire diffidare di chiunque voglia limitare il potere dei magistrati di imporre verità. È una forma di nostalgia etica distopica: l’idea che da qualche parte esista un potere incontaminato, disinteressato, casto. Ma il potere, anche quello giudiziario, non è mai innocente: è umano, e proprio per questo va diviso, bilanciato, corretto. Un potere che si autocontrolla non è democratico: è paternalista. Separare le carriere, allora, non significa ridurre l’indipendenza dei magistrati, ma distribuirla in modo più trasparente. L’accusa deve restare autonoma dal governo, ma anche distinta dal giudice. Solo così si può parlare di equilibrio, non di sacralità.

Anche per smentire chi sostiene che il problema vero non sarebbe né giuridico né filosofico, ma banalmente antropologico. L’Italia – si dice – ha una abitudine antica alla confusione dei ruoli. Da noi, il confine è sempre sfumato: tra pubblico e privato, tra politica e affari, tra fede e superstizione. E così anche tra chi accusa e chi giudica. Perciò, separare vorrebbe dire educare alla distinzione. In questo deserto culturale dove tutti sospettano di tutti l’ex pm Nordio si presenta come un onesto restauratore.

Dice: torniamo all’ordine, separiamo le funzioni, facciamo chiarezza. La riforma non come atto tecnico, dunque, ma puro gesto estetico. Neanche suonerebbe male. Sarebbe la pretesa di restituire al dramma della giustizia la sua unità stilistica, il suo equilibrio scenico. Perché una democrazia, come un’opera d’arte, funziona solo se gli interpreti conoscono il proprio ruolo. In fondo, se avesse ancora un’anima colta e critica, la sinistra potrebbe capire che non si tratta di “indebolire” la magistratura, ma di liberarla dalla sua nevrosi di onnipotenza. Dovrebbe dire: sì, la giustizia deve essere indipendente, ma anche distinta. Perché il giudice che si crede potere politico è un problema democratico, non meno di una politica che si crede poco potente.

La giustizia confusa con la salvezza

E poi scusate se insisto, ma mi preme dire al presidente dell’Anm, la cui erre arrotata stona come un privilegio di casta, smettiamola una volta buona con il culto bigotto della verità, nodo nascosto della modernità italiana! In realtà, siamo un popolo che non crede al dogma, ma adora la confessione. Ci piace la colpa, ci eccita l’assoluzione, ci commuove il pentimento. Viviamo dentro un’ossessione giudiziaria, e per questo non sappiamo più riconoscere la differenza tra giustizia e spettacolo. Il compito del giudice, insomma, non è possedere la verità, ma renderla il meno emotiva possibile e almeno temporaneamente credibile. Per questo il magistrato giudicante dovrebbe restare solo, distinto, silenzioso.

E mai appellarsi alla “verità sostanziale”, dato che la sostanza nel diritto è la prova non la convinzione. Dunque, che cosa ci si potrebbe oggi augurare di nuovo e di moderno dalla nostra sinistra che di fronte a questa riforma si trova come sempre davanti al proprio riflesso e non sa se indignarsi o pensare? Per il momento la sinistra sperduta nel campo largo si lambicca e urla a sproposito. Da un lato teme che il governo voglia normalizzare la giustizia, togliere potere ai magistrati, restituire impunità ai forti. Dall’altro sa, o dovrebbe sapere, che il sistema attuale non funziona più: che è diventato autoreferenziale, chiuso, narcisista. Un tempio senza fede, dove la toga si è trasformata in un feticcio morale. Dai tempi di Mani Pulite, direi dai tempi del teorema Calogero (il magistrato che nel 1979 perseguitò leader, intellettuali, militanti e simpatizzanti dell’Autonomia operaia con magno gaudio del partito comunista), la sinistra italiana ha confuso la giustizia con la salvezza sua e del mondo, facendo dei pm i propri eroi tragici, i paladini dell’etica pubblica, i nuovi profeti laici.

Ogni processo diventava un’epifania civile, ogni avviso di garanzia una prova d’amore verso la democrazia. Si è scambiata la funzione per la missione, la legge per la morale. E così si è finito per idolatrare un potere che non risponde a nessuno, nemmeno a sé stesso. Come può dunque una persona di sinistra approvare oggi la riforma Nordio? Può farlo se si ricorda che la sinistra non è l’ideologia del sospetto ma una buona teoria della forma giusta del potere. Può dire di sì senza tradirsi, purché le si garantisca che la riforma non diventi un travestimento autoritario (qualche pulsione si avverte nella destra più retrò).

Alla fine accettando l’idea razionale che il giudice non è un sacerdote, il pm non è un crociato, e la verità — come scriveva Charles Peirce — è solo “ciò su cui convergerebbe una comunità di indagatori, se avessero tempo infinito”. Nessun processo lo ha, quel tempo. Ma una buona giustizia è quella che lo evoca: che fa sentire al cittadino che, pur nei suoi limiti, il sistema tende verso la verità senza pretendere di incarnarla. In fondo, separare le carriere non è un gesto tecnico, ma un atto simbolico: significa dire che la verità non è una persona, ma un percorso. E che la democrazia, come la filologia, non si fonda sull’unità delle voci ma sulla loro differenza.

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