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Delitto Mattarella, arresto ex prefetto Piritore: riemerge l’ombra del Deep State

A 45 anni dall’omicidio di Piersanti Mattarella, arrestato l’ex prefetto Filippo Piritore: avrebbe depistato le indagini sul delitto del presidente siciliano

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A 45 anni dall’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia che sognava una terra «con le carte in regola» e fratello del Capo dello Stato, riemerge prepotente dagli abissi della memoria una pagina nera che racconta di depistaggi e riporta in vita l’antica e sempre longeva teoria del ‘Deep State’. Quello Stato occulto che si sarebbe reso autore e complice di stragi e omicidi, stringendo patti segreti con Cosa Nostra.

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Un teorema che la Procura di Palermo sostiene da sempre nella ricostruzione della storia stragista, e che ora diventa ipotesi accusatoria con un nome e un cognome. La Direzione Investigativa Antimafia ha notificato la misura degli arresti domiciliari a Filippo Piritore, 75 anni, ex funzionario della Squadra Mobile di Palermo ed ex prefetto, accusato di depistaggio. Per gli inquirenti Piritore avrebbe fornito «dichiarazioni prive di riscontro» per sviare le indagini sul guanto in pelle trovato a bordo della Fiat 127, utilizzata dai killer. Quel guanto – descritto in un rapporto come «di mano destra, in pelle marrone, antistante al sedile anteriore destro» – considerato la prova regina per risalire agli autori del delitto, non fu mai repertato né sequestrato, e da quel 6 gennaio del 1980 è sparito nel nulla.

Indagini sull’omicidio gravemente inquinate

«Le indagini sull’omicidio furono gravemente inquinate e compromesse da appartenenti alle istituzioni – scrivono i pm della Direzione Distrettuale Antimafia – che, al fine di impedire l’identificazione dei responsabili, sottrassero dal compendio probatorio un reperto fondamentale, facendone disperdere definitivamente le tracce». Sentito come testimone nel settembre 2024, Piritore aveva raccontato di aver affidato il guanto all’agente della Scientifica Di Natale, perché lo consegnasse al magistrato Pietro Grasso, allora titolare delle indagini.

Successivamente, avrebbe affermato di averlo restituito alla Polizia Scientifica per gli accertamenti tecnici, sostenendo l’esistenza di un verbale di consegna. Ma, secondo la Procura, il racconto è «inverosimile e privo di logica», smentito sia dai protagonisti della vicenda sia dalle procedure dell’epoca. I magistrati accusano l’ex prefetto di aver «provocato la dispersione del reperto» fin dal sopralluogo sulla Fiat 127, «inducendo la Scientifica a consegnarglielo e sottraendolo al regolare repertamento».

Chi è Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde

Nell’inchiesta spunta anche il nome del 94enne Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde – condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa – e che secondo gli inquirenti aveva rapporti con la mafia di Michele Greco e Totò Riina. Quel giorno era sul luogo del delitto per partecipare alle indagini e, il 6 gennaio 1980, insieme all’ufficiale dei carabinieri Antonio Subranni e all’allora pm Piero Grasso, acquisì informazioni sia dalla vedova di Mattarella, Irma Chiazzese, che dal figlio Bernardo, entrambi presenti all’omicidio. Lo stesso Piritore ha ammesso di aver informato del guanto Contrada.

«Avvisai subito il dirigente della Mobile, nella persona di Contrada, che evidentemente mi disse di avvisare il dottor Grasso e di mandare i reperti alla Scientifica», ha detto ai pm l’indagato. Secondo gli inquirenti Contrada e Piritore avevano un rapporto che «travalicava quello professionale»: un appunto sull’agenda dell’ex numero tre del Sisde segnala infatti la presenza di Contrada, nel 1980, al battesimo della figlia del funzionario.

Magistrati durissimi su Piritore

Il giudizio dei magistrati su Piritore è durissimo e tranchant: non solo avrebbe assunto condotte che portarono alla dispersione di un elemento essenziale per l’individuazione dei responsabili, ma avrebbe continuato a mentire per decenni, tentando ancora oggi di deviare le indagini. «Dal 1980 a oggi – scrivono i pm – ha agito in difesa di interessi contrari all’accertamento della verità, riconducibili a un contesto più ampio e opaco che, sin dall’immediatezza del delitto, vide anche appartenenti alle istituzioni impegnati a deviare il naturale corso delle indagini». Un quadro indiziario quello a carico dell’ex funzionario della Squadra Mobile, come scrive la Gip di Palermo Antonella Consiglio che è «grave e plurimo. Perché nulla di quanto da lui dichiarato é risultato non solo rispondente al vero, ma neanche alla logica ed all’elementare buon senso, tanto da apparire come un affronto per chi riceve e deve valutare tali dichiarazioni».

Il buco nero che squarcia il velo della legalità

Si riapre così l’enorme buco nero che squarcia il velo della legalità e che ipotizza l’esistenza, all’epoca, di figure istituzionali che hanno sviato, depistato, inquinato e ritardato le investigazioni sugli autori materiali del delitto. A proposito dei depistaggi i magistrati citano l’allora Questore di Palermo Vincenzo Immordino, definito protagonista di «due tentativi di sviamento delle indagini». Per uno dei quali questi sarebbero stati sentiti con notevole ritardo, testimonianze fondamentali come lo stesso Ministro dell’Interno Virginio Rognoni, che Piersanti Mattarella aveva incontrato pochi giorni prima di essere assassinato per denunciare il ruolo di Vito Ciancimino e l’inquinamento mafioso della politica palermitana.

Le condanne sull’omicidio di Piersanti Mattarella

Nella sentenza della Corte di Assise del 12 aprile 1995 che condannò all’ergastolo tutti i boss della ‘cupola’ – da Totò Riina a Michele Greco, da Bernardo Provenzano a Bernardo Brusca, da Pippo Calò a Francesco Madonia – si legge che «l’istruttoria e il dibattimento hanno dimostrato che l’azione di Piersanti Mattarella voleva bloccare proprio quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo pesantemente proprio su questi illeciti interessi». Condanne successivamente confermate in Cassazione, mentre gli esecutori materiali non sono mai stati individuati con certezza. Secondo l’inchiesta – riaperta dai pm di Palermo nel 2018 – la ‘cupola’ scelse due sicari fidati, i boss Nino Madonia e Giuseppe Lucchese, iscritti sul registro degli indagati.

Madonia e Lucchese – condannati per decine di omicidi – sono in carcere da decenni: il primo dal 1989, il secondo dal 1990. All’epoca dei fatti avevano 28 e 22 anni. Furono loro, secondo le ultime indagini, a entrare in azione quella domenica mattina di 45 anni fa. Allo stato sono i corso gli accertamenti tecnici con nuove tecnologie per estrarre il Dna su una impronta ritrovata 45 anni fa nello sportello lato guidatore della Fiat 127 usata dall’assassino.

L’impronta ritrovata 45 anni fa

Dopo il delitto l’impronta fu isolata, ma fu considerata inutilizzabile per potere svelare l’identità di chi l’aveva lasciata sulla carrozzeria. Il vetrino potrebbe avere catturato delle tracce biologiche comparabili con il Dna dei due indagati. Madonia sarebbe l’uomo «dagli occhi di ghiaccio» descritto in vari identikit, figlio del capomafia di Resuttana, Francesco, e appartenente a una delle famiglia di mafia più potenti di Palermo. Sul movente dell’assassinio la magistratura ha sempre sostenuto che la morte di Mattarella fu di contrasto all’azione di profondo rinnovamento che la vittima aveva intrapreso, tentando di spezzare il legame fra Cosa nostra e certa politica.

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