L’ex ministro della difesa e fondatore dell’Ulivo: «Sinistra di governo è un nome vano. Una come quella attuale può essere solo contro»
Dopo le sconfitte nelle Marche e in Calabria, arriva il voto in Toscana. Stavolta il centrosinistra è favorito, ma secondo Arturo Parisi, promotore dell’Ulivo e delle riforme istituzionali negli anni ’90 ed ex ministro della difesa nel governo Prodi dal 2006 al 2008, il Pd ha perso la voglia di governare e il campo largo è vuoto di idee.
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«Privo di un progetto alternativo a quello della conservazione dell’esistente, il partito che si propone come guida del campo contrapposto a questo centrodestra è portato inevitabilmente a cavalcare qualsiasi onda o destriero che spinto dallo spirito del tempo gli passi avanti. L’altro ieri il movimento ambientalista, ieri quello Lgbt+, oggi la comprensibilissima emozione alimentata dal massacro di Gaza per mano di quello sciagurato di Netanyahu accecato dal pogrom del 7 ottobre e spinto dalla componente fondamentalista del suo governo».
Quali prospettive ha questa linea sulla costruzione di una sinistra di governo?
«Appunto. Senza un progetto alternativo, sia esso riformista o rivoluzionario, cioè “per”, sinistra di governo è un nome vano. Una sinistra come quella attuale può essere solo contro: subalterna alla Piazza perché all’inseguimento di qualsiasi movimento che si levi contro il Palazzo, subalterna al Palazzo perché costretta come nei talk della sera a un gioco di rimessa all’insegna del “parla prima tu che intanto vedo vedo cosa mi viene in mente».
Francesca Albanese elevata a icona di culto. Slogan antisemiti ai cortei. Il rigurgito di sentimenti antioccidentali. Come si spiegano la radicalizzazione e la nuova vocazione minoritaria del Pd?
«Per dirla in breve direi: l’incerto interesse ad andare al governo. Direi meglio la totale assenza di impazienza di governare. Senza un progetto pensato per costruire nel presente il futuro del Paese, governare è un rischio. In questo contesto l’obiettivo si riduce ad accrescere la porzione percentuale di seggi intestati al partito a dimostrazione che Giove è ancora dalla parte della segreteria di turno. E per ognuno non perdere il contatto con chi, grazie al numero dei sedili conquistati, deciderà del – lo dico? – del suo sedere».
Come valuta l’ambiguità strategica del Pd sulla politica estera e sulla difesa europea?
«Diciamo meglio: ambiguità tattica perché appunto privi di strategia. Seppure muovendo da scelte di fondo antiche e comuni, il partito è finito travolto dalle divisioni che attraversano il campo che con la sua scelta “testardamente unitaria” la segretaria assume come un prius. Invece di incalzare gli alleati con un confronto rigoroso ed esigente subisce le loro posizioni troppo spesso scelte proprio per differenziarsi dal partito. Appresso al campo largo, il partito è finito così incerto sui fini e sui mezzi. Sulla collocazione internazionale, il campo largo è diviso tra atlantisti, europeisti antiatlantisti, fino ai terzomondisti e filoputiniani. E quanto ai mezzi, è diviso tra irenisti contrari ad ogni riarmo e riarmisti al fianco dell’industria militare. Come meravigliarsi se in questo contesto l’ultima parola è dei movimenti di piazza?».
Sulla scia della tradizione pentastellata, Pasquale Tridico ha ispirato il suo programma al populismo sociale e al più vieto assistenzialismo. Ma la Calabria lo ha respinto, capovolgendo i ruoli tra innovatori e conservatori. Dobbiamo assuefarci a un Pd regressivo e socialpopulista?
«Nonostante quel che si dice, in Calabria è andata come doveva andare. La sensazione di sconfitta è figlia più della propaganda della vigilia di una possibile vittoria che dei voti nelle urne. Purtroppo il miglior commento è quello affidato all’uscita dei seggi agli instant poll condotti da Youtrend tra i votanti. Alla domanda relativa al cambiamento delle cose dopo il voto, l’85% ha risposto “non so o continueranno come prima”, il 13% “miglioreranno”, il 2% “peggioreranno”. Nessuna illusione, poche speranze, nessuna paura. Figuriamoci se avessero potuto sentire quelli che non sono andati a votare».
Il cosiddetto campo largo rischia quindi di diventare un campo vuoto?
«Vedo che ci siamo capiti. Vuoto di idee, più che di voti».
Insomma, un’alleanza senza contenuti né strategie, assorbita da una funzione di testimonianza tipica di un’opposizione morale ma incapace di trasformarsi in un progetto di governo?
«Più che di opposizione morale parlerei tuttavia di opposizione vocale».
Elly Schlein esercita una presa assoluta sulla classe dirigente del partito. Lo dimostrano l’espansione del potere della sua segreteria e il repulisti di candidati riformisti in Toscana dove si vota nel weekend. C’è ancora spazio per una proposta alternativa? I riformisti possono ancora svolgere un ruolo?
«Innanzitutto vorrei capire se lo vogliono svolgere.Subito dopo vorrei che capissero che riformismo non è moderatismo. Se l’estremista può accontentarsi di fare “più uno”, al riformista non può bastare fare “meno uno”. È anche per questo che al termine “riformista” preferisco da sempre il termine “riformatore”».