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Giochi olimpici, qui la Palestina esiste da trent’anni

Majed Abu Maraheel è stato il primo atleta palestinese alle Olimpiadi, morto a Gaza nel 2024 per l’impossibilità di trasportarlo verso il valico di Rafah e in Egitto per le cure


C’è dove la Palestina già c’è, e da quasi trent’anni: è nel cuore dello sport, alle Olimpiadi. Il primo palestinese ufficialmente riconosciuto come tale corse i 10 mila metri ai Giochi di Atlanta 1996. Si chiamava Majed Abu Maraheel ed aveva 33 anni in quel periodo. Era un membro di “Forza 17”, come veniva chiamata la guardia personale di Arafat, prendendo il nome dal numero civico dell’edificio di Al-Fakhani Street a Beirut, dove era inizialmente collocato.

Majed si classificò ventunesimo nella sua batteria di qualificazione che fu vinta dall’etiope Worku Bikila nel tempo di 27:50.57. Majed impiegò 34:40.50. La finale, alla quale il palestinese non partecipò, assegnò l’oro a un altro etiope, Haile Gebrselassie, che corse in 27:04.34. Erano numeri che a Majed non interessavano: «Non sono qui per una medaglia, ma solo per portare la bandiera della Palestina e far vedere al mondo intero che esistiamo anche noi», dichiarò.

Majed divenne poi allenatore di atletica e di calcio. Era nato a Nuseirat, un campo profughi al centro della Striscia di Gaza, sorto a causa della “nakba” (la “catastrofe” in lingua e storia araba, il “genocidio” di oggi: era il 1948). A Nuseirat ha vissuto fino ai suoi 61 anni, quando, sofferente per una insufficienza renale e portato via da casa e terra sue, è rimasto vittima dei bombardamenti israeliani al valico di Rafah, quello che avrebbe dovuto consentire l’ingresso degli aiuti umanitari e l’uscita dei bisognosi di terapie.

La volta dopo quella di Majed, cioè a Sydney 2000, i palestinesi erano due, un ragazzo, Ramy Al-Deeb, nell’atletica, e una ragazza, Samar Nassar, nel nuoto. Erano tre nel 2004 ad Atene: stavolta a portare la bandiera fu la ragazza, Sanna Abubkeet, che era la prima donna olimpica della sua nazione a provenire dalla Striscia di Gaza, era lì per l’atletica, come Abdal Salam Al-Dabaji, mentre in piscina c’era un 17enne, Rad Aweisat che partecipò ai 100 farfalla, uno degli ori di Phelps. Quattro, ancora soltanto per atletica e nuoto, furono a Pechino 2008, parità di genere garantita, due ragazze (Gharid Ghrouf e Zakia Nassar) e due ragazzi (Hamza Abdo e Nader Al-Massri). A Londra 2012 parteciparono ancora due atleti (lui Bahaa Al Farra, lei Woroud Sawalha) e due nuotatori (lui Ahmed Jebrel, ei Sabine Hazboun) ma il totale fu di 5 giacché s’era aggiunto come sport il judo e come olimpico Maher Abdul Remeleh, al quale venne affidata la bandiera. Sei i palestinesi a Rio 2016, la maratoneta portabandiera, Mayada Al-Sayad e lo sprinter Mohammed Abukhousa sulla pista d’atletica, Mary Al-Atrash, ragazza di Betlemme, e ancora Ahmed Jebrel in piscina, il judoka Simon Yacoub e, portando un nuovo sport per la sua nazione, il cavaliere Christian Zimmermann nella specialità del dréssage negli sport equestri. Il suo cavallo si chiamava Aramis, come il moschettiere. Zimmermann, nato tedesco a Colonia, aveva praticato il dréssage in Germania in gioventù, quando ancora si chiamava, come nell’atto di nascita, Christian Bruhe.

Smise con l’equitazione quando aveva 26 anni. Ma dopo 18 anni da businessman di successo sentì il “richiamo del cavallo”, e, soprattutto, il bisogno di fare qualcosa per la Palestina. »Noi tedeschi – ha detto in un’intervista – abbiamo una responsabilità speciale nei confronti del popolo ebraico e di Israele. Ma questa responsabilità significa che dobbiamo impegnarci per la pace. E si può criticare la politica israeliana: per questo ho deciso di gareggiare per il popolo palestinese, un gesto d’amore per loro. Un piccolo gesto: ma se partecipando alle Olimpiadi riuscissi a dare un po’ di voce a questo popolo, sarebbe già un successo». Lo ebbe, pure classificandosi soltanto al 57esimo posto su 59.

A Tokyo 2020, nelle Olimpiadi ritardate di un anno per il Covid, i palestinesi erano cinque: due ragazze e tre ragazzi, atletica, nuoto e judo anche stavolta, ma con l’aggiunta del sollevamento pesi. La sprinter in pista era Hanna Barakat, nata a Los Angeles e figlia di Mohammed che, diciassettenne, era stato olimpico con gli Usa, grazie al suo passaporto americano (frutto della diaspora) a Los Angeles 1984 nell’hockey prato. I nuotatori erano Yazzan Al-Bawwab, “per metà italiano” come si definisce lui, nato in Arabia Saudita ma figlio di cittadini palestinesi e italiani, perché il papà Rashad era vissuto e diventato italiano e ingegnere da rifugiato a Genova, e Dania Nour; il judoka era Wesam Abu Rmilah. La novità del sollevamento pesi era rappresentata da Mohammed Hamada, ragazzo di Gaza, che fu anche l’alfiere. Sognava di tornare ai Giochi tre anni dopo a Parigi 2024, ma si fratturò un ginocchio fuggendo dal fuoco israeliano mentre portava l’acqua per la famiglia e quando era dimagrito già di 20 chili dovendo nutrirsi con del cibo per animali.

Nonostante tutto, i palestinesi riuscirono ad essere in otto a Parigi. C’era ancora Yazan Al-Bawwab in piscina insieme con Valerie Rose Tarazi, anche lei della diaspora, cristiana, nata in Illinois; c’era un nuovo judoka, Fares Badawi, in pista nell’atletica erano Mohammed Dweard e Layla Almasry, c’erano in sport nuovi per la nazione, Omar Yaser Ismail nel taekwondo (si allenava da remoto: il suo coach non poteva raggiungerlo in Cisgiordania) e Jorge Antonio Sahle nel tiro a volo (tra la cittadinanza palestinese della mamma e quella cilena del papà aveva scelto la prima).

C’era, soprattutto, Wasim Abusal, primo pugile. Il “soprattutto” non è legato al risultato sportivo, ma al successo mediatico ed al messaggio che riuscì a trasmettere. Era l’alfiere della Palestina sulla Senna, ma non era tanto la sua bandiera che emozionò, bensì la camicia bianca che indossava. Sul petto aveva ricamati su di un lato aerei e bombe, i primi che volavano le seconde che cadevano, su bambini che stavano giocando sulla sabbia; sull’altro lato un bambino teneva in mano un ombrello aperto e volava verso il cielo. Era come uno di quegli indimenticabili murales di Banksy.

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