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BRICS, exploit sulle rinnovabili

Nel 2024 hanno generato oltre la metà dell’energia solare mondiale

Nel 2024 i Paesi BRICS hanno segnato un traguardo storico: per la prima volta hanno generato oltre la metà dell’energia solare mondiale. È quanto emerge da un’analisi del think thank Ember, che fotografa un balzo straordinario rispetto a un decennio fa. Cina, India e Brasile sono al centro di questa accelerazione, con Pechino che domina per capacità installata e Nuova Delhi che ha raddoppiato i volumi in appena due anni. Anche il Brasile, forte di un mix già ricco di rinnovabili, ha consolidato il proprio posizionamento come leader sudamericano della transizione.
Questi numeri segnalano che la corsa alle rinnovabili non è più appannaggio esclusivo dell’Occidente. I Paesi emergenti si presentano come protagonisti di una trasformazione energetica globale. Eppure, dietro l’entusiasmo delle cifre, il quadro resta irregolare, con forti contraddizioni e divergenze interne.
La Cina rappresenta il caso più emblematico. Nel 2024, ha generato 834 TWh da fonte solare, pari al 39% del totale mondiale. Da un lato, il governo ha accelerato con decisione sulle rinnovabili, fino a costruire un’industria solare che oggi è leader mondiale per capacità e competitività. Dall’altro, banche e imprese cinesi continuano a sostenere progetti a carbone all’estero, in particolare in Asia e in Africa. Una strategia a doppio binario che, come notano diversi osservatori, risponde a una logica di convenienza politica: ridurre le emissioni in patria, dove la pressione sociale e ambientale cresce, e allo stesso tempo consolidare relazioni economiche con i Paesi partner attraverso infrastrutture fossili. È una scelta pragmatica, ma anche rischiosa sul piano reputazionale, perché espone Pechino alle accuse di incoerenza in un momento in cui la credibilità internazionale sulla transizione è sempre più importante.
Il vertice di Rio de Janeiro, celebrato come un successo politico per la volontà di rafforzare l’indipendenza dal dollaro, ha reso visibili le linee di frattura. Da una parte Cina e Brasile, impegnati a spingere sulle rinnovabili: Pechino per calcolo industriale, Brasilia per convinzione ideologica del governo Lula, che vede nella leadership ambientale un tratto distintivo della propria politica estera. Dall’altra Russia e Sudafrica, ancora strettamente legati ai combustibili fossili: Mosca dipende quasi interamente dall’export di idrocarburi per finanziare la guerra in Ucraina, Pretoria rimane vincolata al carbone per la produzione elettrica e a un settore automobilistico tradizionale, fondato sui motori a combustione.
A queste differenze si è aggiunto un altro dato rilevante: il documento finale del summit non ha incluso alcun impegno sul phase-out delle fonti fossili. Al contrario, ha riaffermato il ruolo centrale di carbone, petrolio e gas nei sistemi energetici dei Paesi membri, con la motivazione che la sicurezza energetica e la crescita economica restano priorità non negoziabili. Una posizione che segna un passo indietro rispetto agli impegni assunti in sede COP e che conferma quanto il blocco resti diviso sul ritmo e sulla profondità della transizione.
Non meno significativa è stata la critica rivolta all’Unione Europea. I BRICS hanno bollato la carbon tax alle frontiere come una misura discriminatoria, percepita come protezionismo mascherato da politica climatica. Un’accusa che rivela la crescente tensione tra Sud globale e Paesi industrializzati, e che mette in discussione la possibilità di costruire regole condivise per il commercio e l’energia pulita. Parallelamente, i BRICS hanno chiesto con forza ai Paesi ricchi maggiori finanziamenti per sostenere la transizione nei mercati emergenti. Senza nuove risorse, sostengono, i costi sociali ed economici di un abbandono rapido dei combustibili fossili sarebbero insostenibili. Si tratta di una rivendicazione che riflette la realtà delle economie in via di sviluppo, ma che al tempo stesso alimenta l’immagine di un gruppo che parla di futuro sostenibile senza riuscire a rinunciare davvero alle vecchie dipendenze.
Il risultato è una fotografia ambivalente. I BRICS appaiono come motore della crescita rinnovabile mondiale: sommando tutti i contributi, essi raggiungono il 51% dell’energia elettrica prodotta con il fotovoltaico su scala globale (+15% rispetto a dieci anni fa), ma al tempo stesso difendono il ruolo delle fossili e contestano le politiche ambientali occidentali. Questa doppiezza comporta pericoli concreti. C’è il rischio di lock-in infrastrutturale, con nuove centrali a carbone o gas destinate a diventare obsolete in pochi anni, di nuove dipendenze geopolitiche, legate alle catene di fornitura dei materiali critici per il solare e le batterie. E, soprattutto, c’è la possibilità di una frattura tra Nord e Sud globale, proprio mentre la cooperazione sarebbe essenziale per accelerare la transizione.
A breve termine, Cina, India e Brasile continueranno a trainare la corsa al fotovoltaico e all’eolico, riducendo almeno in parte la crescita della domanda di carbone domestico. Ma a medio e lungo termine, la traiettoria dei BRICS dipenderà dalla capacità di sciogliere i propri nodi interni: la dipendenza russa dagli idrocarburi, la vulnerabilità sudafricana al carbone, l’ambivalenza cinese tra rinnovabili e fossili, le tensioni con l’Europa sulle regole del commercio.
La corsa alle rinnovabili nei BRICS è dunque reale, e potrebbe cambiare radicalmente la geografia energetica globale, ma resta segnata da contraddizioni profonde. In questi Paesi si gioca oggi una partita decisiva tra la logica della crescita verde o quella della sicurezza fossile: dal risultato dipenderà non solo il futuro del blocco, ma la direzione stessa della transizione climatica mondiale.

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