Giorgia Meloni, al recente meeting di CL, ha indicato nel sostegno al “ceto medio” la priorità del governo per la prossima manovra finanziaria. Altre forze politiche, anche di opposizione, si sono affrettate a sostenere questa posizione. Ma esattamente cos’è il “ceto medio”? Per gli economisti, una classe sociale è in primo luogo definita dalla sua capacità di controllare risorse, cioè in sostanza dal suo reddito. Siccome in Italia esiste un’imposta che si chiama “imposta personale sui redditi” (cioè, l’Irpef) un modo intuitivo per definire il ceto medio è guardare ai livelli dei redditi come dichiarati in sede Irpef.
Per esempio, dei 33 milioni e mezzo di italiani che nel 2023 hanno dovuto presentare la dichiarazione Irpef in quanto la loro imposta netta era positiva, il 78,5% ha dichiarato meno di 35,000 euro mentre solo il 4.6% più di 70,000 euro. Ragionevolmente, il residuo, cioè il 18% circa dei contribuenti che ha dichiarato tra i 35 e i 70 mila euro e versato da soli il 31% del totale gettito Irpef, potrebbe essere considerato ceto medio.
Un’identificazione errata
Benché intuitiva, l’identificazione qui proposta è però sbagliata. La ragione è che nonostante il nome e il presupposto giuridico, l’Irpef ha smesso da tempo di essere un’imposta su tutti i redditi. In particolare, dalla “discesa in campo” di Berlusconi nel 1994, molti governi si sono esercitati nella nobile arte di tagliare le tasse ad alcuni contribuenti, lasciando agli altri l’onere di farsi carico del bilancio pubblico.
Nel caso dell’Irpef, il beneficio fiscale ha preso la forma soprattutto di una sottrazione di via via sempre diverse tipologie di redditi dalla base imponibile, così sottraendole alla progressività, e tassandole invece a parte, ad aliquote agevolate. La lista è lunga: forfettario enormemente espanso per le partite Iva e i redditi autonomi, cedolari secche per i redditi da locazione, esenzione dei redditi domenicali dall’Irpef per gli imprenditori agricoli etc.
Non sorprende dunque che il 54% dei redditi imponibili Irpef siano oggi redditi da lavoro dipendente e il 30% redditi assimilati, cioè da pensione. Questo vuol dire che le forcelle prima indicate fanno riferimento essenzialmente ai redditi come dichiarati da lavoratori dipendenti e pensionati; le restanti categorie non dichiarano redditi Irpef o lo fanno solo in misura marginale, vista la possibilità di alternative più vantaggiose. Per esempio, solo il 3% della base imponibile Irpef è composta da redditi da lavoro autonomo, benché la proporzione tra dipendenti e autonomi tra gli occupati italiani sia di circa 4 a 1.
Vuol dire anche che è molto difficile offrire un’interpretazione normativa ai dati prima ricordati; anche senza considerare i possibili effetti distorsivi dell’evasione, è del tutto possibile che un contribuente con poco reddito Irpef non sia affatto “povero”, ma che semplicemente abbia molti redditi esenti da Irpef (quali sono, per esempio, tutti i rendimenti dal capitale finanziario).
Infine, neppure si può immaginare che le forcelle nei redditi da lavoro dipendente prima indicate siano comunque una ragionevole proxy per i valori nei redditi complessivi. Questo sarebbe vero se, come avveniva ancora negli anni 60-70, la grande maggioranza dei redditi degli italiani arrivassero da lavoro dipendente; in realtà, ad oggi, i redditi da lavoro dipendente costituiscono solo il 40% circa di tutti i redditi come stimati nel calcolo del reddito nazionale.
Per dirla in modo diverso, il 60% di tutti i redditi generati dall’economia italiana prendono la forma di profitti, interessi, rendite etc. che avvantaggiano solo alcuni italiani, cioè quelli che appunto hanno i titoli per accedere a queste risorse (il possesso del patrimonio relativo).
È difficile trovare il ceto medio
Per concludere. Identificare il ceto medio è molto elusivo. Certo, non coincide con la visione stereotipata di una famiglia con due lavoratori dipendenti e due figli. Intanto, nell’Italia di oggi, visti i bassi salari medi, a meno che questa famiglia non abbia anche del patrimonio (magari ereditato, vista la situazione demografica) o non appartenga a qualche categoria “protetta” per altre ragioni, è molto probabile che questa famiglia sia povera piuttosto che del ceto medio.
Dall’altra parte, se invece questa famiglia è ceto medio perché proprietaria o perché protetta dallo Stato (che magari ne garantisce le rendite e poi ne consente pure l’evasione, come nel caso di balneari e tassisti) allora non si capisce bene perché il governo dovrebbe aiutarla. Per uscire dall’ambiguità sarebbe forse meglio dire che è necessario intervenire sul sistema tributario a sostegno di chi paga l’Irpef (cioè, i lavoratori dipendenti e assimilati) anche per redditi relativamente elevati, perché il livello di disuguaglianza rispetto ad altri contribuenti ha davvero raggiunto i livelli di guardia. Bisognerebbe dirlo alla presidente del Consiglio.