Due nomine imbarazzanti spingono il ministro Schillaci a revocare il gruppo vaccini, di freschissima nomina, suscitando rumorosi brontolii in larghi settori della maggioranza, e due casi di cronaca – due morti a causa dell’utilizzo del taser da parte delle forze dell’ordine, a Genova e Olbia – spingono il ministro Piantedosi a una difesa secca, perentoria e quasi indignata dell’operato dell’Arma. Al Ministero della Salute il cogitabondo Orazio Schillaci scricchiola, scrivono i ben informati, mentre è ben salda la linea mascelluta di Piantedosi al Viminale. I due casi non meritano di essere accostati solo perché torna in entrambi il numero due – due controversi esperti lì, due vittime in circostanze da chiarire qui -: non è questione di cabala, insomma, ma di una intensità politica di cui vengono investite vicende che potrebbero essere meglio affrontate in termini razionali, senza eccessi polemici, sulla mera base di competenze specifiche e conoscenze appropriate.
Ad esempio. Tra i compiti di un ministro dell’Interno rientra sicuramente una motivata solidarietà nei confronti degli agenti di pubblica sicurezza, ma se Piantedosi si fosse accontentato di spiegare a cosa serve il taser, in quali circostanze viene adoperato e perché, quanti siano sporadici i casi in cui l’uso dell’arma provoca conseguenze letali, se avesse fatto parlare i numeri e si fosse limitato a riportare i fatti, con le consuete clausole di garanzia in vista di eventuali, ulteriori accertamenti, avrebbe espresso in modo meno risentito ma altrettanto efficace la sua concreta vicinanza ai carabinieri, agli agenti in servizio e all’intero Corpo. Invece no. Invece ha voluto far riferimento a polemiche pretestuose, a pregiudizi e antipatie, a attacchi infondati che si ripeterebbero strumentalmente, quasi che le indagini avviate non fossero un atto dovuto, ma parte di una campagna orchestrata ad arte.
Cui prodest? Invece di circoscrivere i casi, Piantedosi li colloca dentro una supposta offensiva tesa a screditare le forze dell’ordine, a cui rispondere schierandosi energicamente dalla parte opposta. La cronaca minuta retrocede così sullo sfondo, e in primo piano balza una politicizzazione aspra, nervosa, sovraccaricata di un valore simbolico e di un significato identitario, che si decifra facilmente: siamo il partito dell’ordine, siamo quelli che difendono la sicurezza, quelli che non perdono tempo appresso alle carte degli avvocati ma fanno rispettare inflessibilmente la legge. Se occorre, sappiamo essere risoluti e decisi, e plaudiamo agli agenti che si dimostrano risoluti e decisi.
Pur con tutte le differenze, il caso Schillaci è uguale, o è uguale la morale che bisogna trarne. Non si tratta infatti di una discussione che riguardi criteri scientifici, stato della ricerca, dati medici o epidemiologici; è, piuttosto, una presa di posizione fortemente ideologica che, di sotto al velo della difesa della libertà, mette sullo stesso piano la medicina e l’omeopatia, l’organizzazione mondiale della sanità e il comitato no vax di vattelapesca, le serie statistiche e non so quali controesempi pescati in rete. Anche la scienza sbaglia, osserva quel campione del pensiero critico che risponde al nome di Francesco Lollobrigida, credendo così che si possa relativizzare ogni cosa, e tenere in eguale considerazione gli «endoxa» – come li chiamava Aristotele – cioè le opinioni accreditate, autorevoli, razionali, vere fino a prova contraria, e ogni altra opinione passi per la testa al primo che capita (e ai complottisti di ogni ordine e grado).
C’è una ragione per tutto ciò, che non è semplicemente epistemologica ma politica, e riguarda la fomentazione di una politicità così pervasiva, da non riconoscere né rispettare spazi di neutralità, di validazione terza, di autonomia, indipendenza o imparzialità. Si tratti delle redazioni dei giornali, delle aule dei tribunali o dei laboratori degli scienziati, viene da un lato avanzato il sospetto che quelle redazioni siano davvero libere, che quelle aule siano davvero imparziali o che quei laboratori siano davvero al riparo da ogni sorta di condizionamento o interesse, dall’altro (e più pericolosamente) sostenuta la tesi di una sovranità popolare compatta, omogenea, concentrata, letteralmente ab-soluta, sciolta cioè da vincoli, che non può quindi essere limitata da alcun’altra istanza, e in nome della quale si costruisce e alimenta la più virulenta conflittualità.
È uno stile politico e di governo che mette in evidente sofferenza le democrazie liberali. O meglio: che restringe progressivamente la quota di liberalismo con cui una democrazia è in grado di sposarsi. Mino Martinazzoli soleva dire che la politica moderata (che non vuol dire: moderatismo), è quella politica che sa che non tutto è politica, e fa tesoro di questa saggezza. Quando invece diventa politico, nella forma più intensa, tanto l’uso del taser quanto la composizione di un gruppo tecnico sui vaccini, allora si riducono gli spazi di mediazione, si perde il senso del limite e la capacità di tenere separati ambiti e sfere di competenza, piani e ordini istituzionali, e si precipita in quello scenario schmittiano in cui conta solo con chi stai, chi sono i tuoi e chi sono gli altri, chi gli amici e chi, invece, i nemici. Se questo succede non solo a Olbia o a Genova, ma anche a Roma, e poi magari a Washington, allora la vita pubblica entra in una fase di contrapposizione sempre più accentuata, sempre più esasperata, che era precisamente quella condizione tragica da cui l’evoluzione democratica avrebbe dovuto portarci fuori, e in cui invece rischiamo nuovamente di precipitare.