ROMA – Una pronuncia destinata a far discutere quella emessa dalla Sezione Specializzata in materia di Immigrazione del Tribunale civile di Roma: riconosciuta la protezione internazionale e sussidiaria a diversi cittadini bengalesi trasferiti lo scorso 18 ottobre nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gjader, in Albania. Il trattenimento di queste persone, disposto nell’ambito del cosiddetto protocollo Albania — l’accordo bilaterale tra Italia e Albania per la gestione esternalizzata delle procedure di asilo — non era stato convalidato.
I giudici capitolini hanno rigettato i dinieghi emessi con procedura accelerata e di frontiera, sollevando per la prima volta dubbi espliciti sulla legittimità della classificazione del Bangladesh come “Paese di origine sicuro”. Al centro della decisione c’è la vicenda di un uomo bengalese, padre di quattro figlie, che ha lasciato il proprio villaggio per sfuggire a condizioni di miseria, debiti insostenibili e minacce di morte. Durante il lungo percorso migratorio, è stato sequestrato in Libia e sottoposto per mesi a torture, fino al pagamento di un riscatto da parte della sua famiglia.
Giunto in Albania, il richiedente è stato sottoposto a una procedura accelerata: la sua domanda di protezione era stata respinta il 17 ottobre, appena un giorno prima del suo trasferimento al Cpr di Gjader. In sede giudiziaria, però, il Tribunale di Roma ha ritenuto il suo racconto attendibile e coerente, configurandolo come vittima di tratta e riconoscendolo appartenente a un “particolare gruppo sociale” ai sensi della Convenzione di Ginevra.
La decisione arriva pochi giorni dopo la sentenza del 1° agosto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha bocciato parte del quadro giuridico su cui si basa il “modello albanese”. La Corte ha stabilito che uno Stato membro non può inserire un Paese tra quelli di origine sicuri se “non offre una protezione sufficiente a tutta la sua popolazione” e che tale designazione deve essere soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo. Il pronunciamento non vieta direttamente i centri in Albania, ma impone vincoli più stringenti, aumentando i rischi di ricorsi e rallentamenti.