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L’instabilità libica e il ruolo dell’Italia oltre il caso Almasri

Meloni, primo ministro Libia Dbeibah

Osama Najim, meglio conosciuto come al-Masri, è solo uno dei numerosi protagonisti della galassia di fazioni armate che si contendono il controllo – e la divisione – della Libia. Accusato di crimini di guerra e traffico di esseri umani, rappresenta una figura centrale nella politica locale di Tripoli, capitale del Paese, in quanto esponente di primo piano della milizia più potente della città: la RADA (Forze speciali per il contrasto al terrorismo e al crimine organizzato).

Dal 2011, anno della caduta di Muammar Gheddafi, la Libia è storicamente frammentata. A dominare la scena nazionale, da un lato vi è un governo sostenuto dalla comunità internazionale – il Governo di Accordo Nazionale (GNA, oggi GNU) – e dall’altro il potente comandante dell’Esercito Nazionale Libico, Khalifa Haftar. I due poli, ciascuno sostenuto da varie fazioni minori, si sono spartiti il Paese: la Tripolitania, a ovest, è sotto l’amministrazione del GNA, mentre la Cirenaica, a est, è sotto il controllo di Haftar. Nel 2019, l’Esercito Nazionale Libico – con il sostegno di Russia (tramite il gruppo Wagner), Egitto ed Emirati Arabi Uniti – ha lanciato un’offensiva sulla capitale per tentare di unificare la Libia, fallita solo grazie all’intervento militare della Turchia.

Dal 2020, la mediazione degli attori internazionali ha permesso di mantenere un equilibrio precario. Tuttavia, la situazione libica rimane instabile e incline a nuove fiammate di violenza. L’episodio più grave degli ultimi tempi è scoppiato nell’agosto del 2024, quando divergenze sulla nomina del direttore della Banca Centrale si sono trasformate in uno scontro per il potere politico tra milizie. La designazione di una figura di compromesso, Najim Issa, non ha placato il malcontento delle milizie di Tripoli, che hanno interpretato la scelta come un segnale di debolezza del governo guidato da Abdul Hamid Dbeibah. Scontri isolati tra i quartieri della capitale sono proseguiti per tutto l’inverno, culminando nel maggio 2025 in una vera e propria resa dei conti.

Abdel Ghani al-Kikli, temuto leader dell’Apparato di Supporto alla Stabilità (SSA), è stato ucciso insieme alla sua scorta in un’imboscata mascherata da incontro presso la base della 444ª Brigata, fedele al premier Dbeibah. In risposta, le forze legate al Governo di Unità Nazionale (GNU) hanno occupato lo strategico quartiere di Abu Salim. Nel tentativo di consolidare il proprio potere e offrire una dimostrazione di forza, Dbeibah ha provato il giorno seguente a neutralizzare anche la RADA, la milizia di al-Masri. Ma l’operazione si è conclusa con un rovescio: l’ultima ha prevalso, generando una profonda crisi di legittimità per l’esecutivo, culminata nelle dimissioni formali di undici ministri in poche ore.

Questo ennesimo e violento confronto tra milizie è anche l’effetto indiretto dell’avvicinamento tra la Turchia e la famiglia Haftar. Tradizionale alleata del GNU, Ankara ha recentemente accelerato l’apertura di un canale diplomatico ufficiale con l’est del Paese, cercando di bilanciare l’incertezza crescente intorno alla figura di Dbeibah. Khalifa Haftar, oggi ottantunenne, ha accolto con favore l’iniziativa turca, interpretandola come un riconoscimento della solidità del proprio blocco. Il riavvicinamento è stato agevolato anche dall’attivismo dei figli del feldmaresciallo, Saddam e Belgassem, candidati alla successione e rappresentanti rispettivamente del potere militare ed economico di Bengasi.

L’iniziativa turca in Libia si è intrecciata con le ambizioni italiane. Forte di una crescente intesa con Ankara, Roma punta a riconquistare un ruolo di primo piano nel Paese nordafricano, dove per anni è rimasta nell’ombra dell’influenza turca a Tripoli e russa a Bengasi. L’indebolimento della presenza russa e l’espansione turca offrono oggi all’Italia un’opportunità per ampliare il proprio margine d’azione. Roma intrattiene buoni rapporti con entrambi i poli libici: ufficialmente riconosce solo il governo di Tripoli, a cui fornisce supporto in materia di addestramento e pattugliamento costiero; allo stesso tempo, però, mantiene un dialogo attivo con la famiglia Haftar per raggiungere gli stessi obiettivi di stabilità e contrasto all’immigrazione, pur senza riconoscere formalmente l’esecutivo parallelo di Tobruk, istituito nel 2014 e fortemente influenzato da Haftar.

Questa duplice strategia consente all’Italia di adottare una linea coerente e flessibile in Libia, ma la espone al rischio di ricatti e tensioni. L’ultimo episodio emblematico si è verificato il 9 luglio, quando una delegazione europea guidata dall’ambasciatore UE Nicola Orlando e comprendente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è stata costretta a lasciare Bengasi dopo aver rifiutato un incontro con i rappresentanti del parlamento di Tobruk – un gesto che sarebbe valso come riconoscimento implicito del loro governo.

Navigare le acque agitate della politica libica richiede dunque grande attenzione e realismo, accettando talvolta compromessi scomodi. Il dialogo con figure accusate dei peggiori crimini, come al-Masri e Haftar, solleva questioni etiche profonde che non possono essere liquidate come mere scelte di politica estera. Tuttavia, i legami storici e geografici tra Italia e Libia restano troppo forti per permettere una vera separazione: la vicinanza tra le coste, l’emergenza migratoria e le relazioni energetiche rendono inevitabile la cooperazione. Ma proprio per questo l’Italia dovrebbe dotarsi di una strategia articolata e coerente con il proprio vicino meridionale, per evitare che la collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo si trasformi nell’ennesima tragedia umanitaria.

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