Il Presidente Mattarella viene inserito da Mosca nella lista dei «russofobi» ma sotto accusa, più che le parole, è la lucidità di lettura del Capo dello Stato
Sergio Mattarella è sotto attacco. Inserito da Mosca nella black-list dei «russofobi» – etichetta che ricalca i metodi del vecchio autoritarismo ideologico – paga per il discorso tenuto a Marsiglia lo scorso 5 febbraio. Discorso «blasfemo», fu definito dalla portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova. Che cosa disse il nostro presidente della Repubblica in quell’occasione? La blasfemia consisteva nell’aver toccato un nervo scoperto, nell’aver infranto il massimo tabù per la propaganda del Cremlino: il paragone tra la Russia e la Germania nazista di Hitler. Ricordando il fallimento della strategia dell’appeasement del 1938, Mattarella sottolineò che all’epoca prevalse «il criterio della dominazione sulla cooperazione», e che ne seguirono «guerre di conquista». E avanzò un paragone con l’oggi: «Questo era il progetto del Terzo Reich in Europa. L’attuale aggressione della Russia contro l’Ucraina è della stessa natura».
Quello del Presidente un atto di responsabilità politica
Parole durissime, che qualcuno ha voluto liquidare come un incidente diplomatico. Ma sarebbe un errore interpretarle così. Quello di Mattarella, infatti, è stato un atto di responsabilità politica nel senso più alto, che ricorda il potere «a fisarmonica» di cui parlava Giuliano Amato a proposito del Presidente della Repubblica, un potere cioè capace di contrarsi o di allargarsi a seconda delle circostanze: nei momenti liminali, il Presidente si prende il rischio di parlare in nome di tutti, di ampliare la sua funzione oltre la semplice rappresentanza, allargando al massimo la fisarmonica. Il paragone con il Reich non era un’analogia storiografica: era un giudizio politico sul presente.
Mattarella ha descritto una modalità di potere -violenta, aggressiva, menzognera, espansionista – che torna ad affacciarsi sul continente, e che ha bisogno di essere riconosciuta per essere fermata. Non ha detto che Putin è Hitler. Ha detto che l’invasione russa dell’Ucraina, l’annessione illegale dei territori, il ricatto energetico, le deportazioni di bambini, la manipolazione della memoria e la guerra informativa appartengono a un’idea del potere che credevamo archiviata col Novecento. E che invece è viva e armata.
La lucidità di Mattarella scardina la narrazione russa
Nella lista russa (che comprende anche Tajani e Crosetto) si accusa Mattarella di aver fatto ricorso a Marsiglia all’hate speech, ma il Capo di Stato italiano non ha usato parole di odio: ha fatto da scudo alla nostra debolezza di fronte alla violenza dell’aggressione russa, che perdura tuttora. Alla debolezza dell’Italia, dell’Europa, della democrazia. Ha ricordato che la Russia di oggi è una potenza in guerra che usa tutte le armi disponibili: militari, cibernetiche, propagandistiche. Ed è questa lucidità di giudizio che il Cremlino ha considerato blasfema. Perché ha scardinato la narrazione tossica della «guerra difensiva», della «denazificazione», dell’Occidente aggressore. Perché ha chiamato l’imperialismo con il suo nome. E perché, soprattutto, ha ricordato che quella russa non è solo una guerra territoriale di inaudita aggressività: è una guerra contro il diritto e l’identità democratica dell’Europa.
E allora che un capo di Stato senza potere esecutivo, alieno da ogni protagonismo, sempre attento alla misura, sia diventato una minaccia per il Cremlino dovrebbe farci riflettere anche sul significato di questo attacco. Che senso ha, infatti, la lista dei «russofobi»? Certo è un atto ostile, un tentativo di intimidazione. Certo, significa colpire l’Italia tutta. Ma è forse soprattutto un esperimento per verificare se la verità istituzionale ha ancora alleati o se può essere neutralizzata. È un’operazione di manipolazione simbolica, utile a costruire, con la disinformazione, l’idea che chi si oppone alla guerra di Putin sia mosso dall’odio – l’hate speech – piuttosto che dalla coscienza civile e democratica.
Il punto, infatti, non è solo la delegittimazione individuale, ma la disarticolazione del fronte democratico. Se si riesce a insinuare che anche la presidenza della Repubblica italiana possa essere etichettata come «ostile» e «irrazionale», allora tutto diventa negoziabile. È la normalizzazione dell’inversione semantica. Dove la difesa diventa attacco e la fermezza diventa estremismo, se non addirittura «fobia».
Un test dell’ambiguità occidentale
Possiamo considerare dunque questa lista come una sorta di test psicologico collettivo per misurare il tasso di ambiguità occidentale e la fragilità della solidarietà democratica? Se sì, avrebbe ancora più senso – simbolico, politico – il fatto che nella cerimonia del Ventaglio al Quirinale, ieri il Capo dello Stato abbia scelto di non arretrare, di non correggere il tiro. Anzi: ha rilanciato con fermezza, perfino con durezza, a conferma che il suo discorso di Marsiglia non è stato un episodio isolato. Ha ribadito chiaro e tondo che «prosegue, angosciosa, la postura aggressiva della Russia in Ucraina», un’aggressione che «ha cambiato la storia d’Europa», demolendo l’equilibrio della pace. Ha detto che quel grande Paese «ha assunto sempre più una sconcertante configurazione volta allo scontro di potenza militare».
Una risposta mirata e puntuale, di estrema autorevolezza. Di fronte all’invasione di un Paese sovrano, ai territori annessi, ai bambini deportati, ai civili bombardati, e in un mondo dove i leader aspirano «a essere temuti più che rispettati», come lo stesso Mattarella ha detto, la messa all’indice di chi condanna con coerenza serve a questo: a demolire la reputazione, a destabilizzare, creando l’illusione di un’opinione pubblica divisa. E a fare della menzogna – ancora una volta – una forma di dominio.
Per questo se la solidarietà bipartisan da parte dei nostri politici era scontata, difendere Mattarella oggi non può essere solo un dovere formale. Vuol dire difendere la possibilità stessa di un discorso pubblico che non sia colonizzato dal sospetto e dalla distorsione sistematica. Significa non arretrare nemmeno di un centimetro su ciò che distingue una democrazia da un regime.