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Cinecittà, un film senza sceneggiatura

Il ministro della Cultura Giuli annuncia un imponente piano per rilanciare Cinecittà, la “Hollywood sul Tevere”, ma lo stato del cinema italiano resta complicato

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Il caso governa tutto al mondo (ultimamente anche il caos, ma è un altro discorso, troppo lungo), però ce ne accorgiamo solo a volte, di solito quando due eventi slegati tra loro accadono in rapida successione e vengono così accostati ai nostri occhi. E così è per la morte di Enrico Lucherini, uno dei più grandi uffici di stampa di sempre, che fu uno degli uomini a rendere grande Cinecittà facendo bere a tutti baggianate promozionali tanto clamorose quanto innocue, fake news ante litteram utilissime a lanciare film e attrici, oltre che a far vendere giornali.

E il giorno dopo, cioè ieri, ecco il ministro Alessandro Giuli annunciare lillero e giuli(vo) il rilancio del sito di produzione aperto sulla Tuscolana nel 1937 («Mussolini ha fatto anche cose buone», direbbe qualcuno): «Sono stati completati i lavori su quattro teatri di posa – 7, 19, 20 e 21 – al termine dei lavori Cinecittà ne avrà 25, teatri tutti all’avanguardia, oltre che una nuova piscina per le riprese in acqua di 2.000 metri quadri, oltre a un nuovo set all’aperto per rassegne ed eventi, e una sala cinematografica da 600 posti», ha raccontato il ministro della Cultura ieri al Senato.

Aggiungendo poi: «Il lavoro svolto a Cinecittà non è soltanto di denuncia e accertamento delle storture del passato, ma è connotato da un elemento propositivo che è sotto gli occhi di tutti, l’investimento complessivo è di 232 milioni di euro, grazie ai quali questo diventerà il principale hub europeo per attrarre produzioni nazionali e internazionali. Nel 2025 per i viali si vedono Mel Gibson, Ridley Scott, Tim Burton, Marion Cotillard, Ficarra e Picone, la Disney e la Universal».

La “Hollywood del Tevere”

E se andrà così, tutto bene, potrebbe essere il ritorno a Hollywood sul Tevere, come Cinecittà venne chiamata negli anni Cinquanta e Sessanta per la costante presenza di divi e di kolossal americani lì girati. Il problema sta appunto nel passato. Senza tornare su gestioni, malagestioni e lottizzazioni varie, assortite e bipartisan (l’ultima la freschissima nomina a presidente di Antonio Saccone, ex senatore Udc, ma in quota Lega, e si era sfiorata la scelta di Giuseppe De Mita, figlio di Ciriaco), basta tornare su esternazioni di inizio mese del ministro.

Il quale, certo in un contesto non istituzionale, ma politico come la festa romana di Fdi, aveva detto: «Fino all’estate 2024 Cinecittà era un cratere estivo ribollente del nulla, vuoto di investimenti e reputazione. Poi è arrivata Manuela Cacciamani, ha fatto una due diligence, si è messa a dialogare con noi e con il Mef e oggi è piena di produzioni: in un anno ha tolto l’Unione Sovietica da Cinecittà». E anche a queste esternazioni hanno fatto riferimento le reazioni politiche al discorso in Senato, che vi risparmiamo, tanto sono tutte così: dal centrodestra standing ovation, dal centro sinistra fischi a scena aperta e lancio di pomodori e gatti morti, come usava nell’avanspettacolo.

I problemi del cinema made in Italy

La verità è che il cinema italiano è in un momento parecchio complicato, per come alcune cose buone (una per tutte, gli incassi in crescita del 4% nella prima metà dell’anno, presenze in crescita del 2, secondo i dati dello stesso Giuli) si mescolano a quelle cattive (la crisi del settore indipendente, la disoccupazione di gran parte delle maestranze, la riforma del credito di imposta che rischia di favorire solo le grandi case di produzione). Cinecittà è parte del problema e può, anzi deve, esserlo della soluzione, anche con la sua storia e la sua importanza nel costume italiano: rivedersi “Bellissima” di Luchino Visconti, dove gli studi sono sia sfondo che protagonisti indiretti, per capirlo.

Il punto è che, come probabilmente in qualunque altro settore della vita pubblica, anche quello di Cinecittà e del cinema italiano è un film che si sta girando senza sceneggiatura, c’è qualche idea vaga di base e tutto lì, sviluppi di trama e finale sono ignoti a tutti. Il che, finché lo faceva Fellini con Mastroianni o Sordi, ci garantiva comunque capolavori. Ora i registi sono cambiati, e anche gli interpreti. E pure gli uffici stampa, o comunicazione, o spin off o influencer, ormai vale tutto. Ma il racconto di Giuli – «Ho incontrato il Ceo di Netflix: cercavo di spiegargli l’importanza di produrre in Italia storie legate alla nostra tradizione, lui aveva capito che avremmo voluto cambiare il logo di Netflix. Un’incomprensione, ma lo avrebbe fatto pur di lavorare a Cinecittà» – non ha la minima importanza se e quanto sia vero o falso. È una cosa alla Lucherini.

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