La natura segue le proprie leggi. Ogni volta che le eludiamo scopriamo, tardi, che l’unica vera catastrofe è ignorare ciò che già sappiamo
Tre disastri, a migliaia di chilometri l’uno dall’altro, hanno prodotto morti, feriti e danni enormi in una manciata di ore. In Texas l’esondazione del Guadalupe divora un campeggio di ragazzi; a Roma un deposito di Gpl esplode in un quartiere ad alta densità abitativa; nel Nord-Est italiano il lavoro si ferma perché il caldo rende pericoloso perfino stare all’aperto. A uno sguardo distratto sembrano calamità isolate, figlie di un imprevedibile “destino avverso”. Eppure l’elemento che le connette non è la casualità della natura, ma la nostra ostinata cecità.
La piena del Guadalupe: rischio trasformato in destino
Il fiume non ha fatto nulla che la fisica dell’idrologia non avesse già descritto: piogge torrenziali su un bacino ripido possono innalzare il livello dell’acqua di metri in un’ora. I servizi meteo avevano diffuso allerte, gli scienziati bollavano da anni quella valle come tra le più soggette a “flash flood” degli Stati Uniti. Eppure campeggi con centinaia di minorenni sono rimasti dove l’acqua avrebbe dovuto esondare. Risultato: almeno 24 vittime e oltre venti ragazze disperse. Ora si discute se gli scout siano stati avvertiti o hanno ignorato gli allarmi. Di fatto a essere imprevedibile non è stato il fiume, bensì la leggerezza umana.

Il deposito di Gpl al Prenestino: una bomba annunciata
Il Gpl è infiammabile, lo sanno perfino le etichette sulla bombola del barbecue. Che un impianto di stoccaggio resti incastrato fra condomìni, un centro estivo e una scuola è l’esito di scelte urbanistiche che hanno messo gli interessi economici (e la comodità di fare rifornimento in città) sopra la sicurezza. Oltre 50 feriti, due in gravi condizioni, sette scuole evacuate, decine di famiglie senza abitazione. Per anni i residenti hanno chiesto la delocalizzazione; le autorizzazioni sono state rinnovate “anno per anno”, finché un mattino il boato ha trasformato le finestre in schegge. Fatalità? Piuttosto ipocrisia.

Il caldo record e i lavoratori sotto il sole
Sappiamo da decenni che un pianeta più caldo moltiplica giornate di “bollino rosso”, colpisce chi lavora nei campi, nei cantieri, perfino chi pedala per consegnare hamburger a Milano. Ci sono già state vittime. Anche qui gli scienziati non tacciono: i rapporti dell’Ipcc, gli studi del ministero della Salute, le linee guida dell’Inail indicano soglie e protocolli. Ma ogni estate ci sorprende come fosse la prima: si varano ordinanze d’emergenza, si elemosinano ammortizzatori sociali, si contano i colpi di calore. L’emergenza climatica diventa cronica perché rimandiamo le cure strutturali.
Il filo rosso: la sordità organizzata
In ciascuna di queste storie l’evento naturale (acqua, fuoco, calore) non è il vero imputato. Lo è la decisione, o la non-decisione, umana. A volte è un sindaco che ignora studi idrogeologici; altre, una burocrazia che rinnova licenze pericolose; altre ancora, governi che trattano le emissioni come se riguardassero il prossimo secolo. È una cecità collettiva, dove la politica cerca il consenso di breve periodo e i cittadini, troppo spesso, accettano l’idea che “tanto non cambierà nulla”.
Il rimpallo delle responsabilità
Per cambiare davvero rotta dobbiamo prima di tutto ripensare la nostra presenza sul territorio: non è l’acqua che travolge le case, siamo noi che costruiamo abitazioni, campeggi e impianti lungo i corridoi naturali dell’acqua e del fuoco, ignorandone i confini. Serve attribuire responsabilità precise a chi concede deroghe e proroghe nel territorio in spregio alle evidenze scientifiche: ogni autorizzazione deve riportare un nome e un cognome davanti ai quali la comunità possa, se necessario, chiedere conto.

Gli allarmi accertati della società civile devono essere trasformati in procedure operative; le segnalazioni dei comitati di quartiere o degli agricoltori non sono rumore di fondo, sono sensori diffusi sul territorio che lo Stato deve riconoscere e integrare nel proprio sistema decisionale.
Infine, lavoro e clima devono entrare nello stesso bilancio: Sospendere un cantiere durante un’ondata di calore ha un costo che già stiamo pagando con gli interessi, dopo anni di rinvii sulle politiche climatiche; investire in mitigazione, adattamento e tutele per i lavoratori non è un lusso, è la forma più elementare di protezione della salute e dell’economia di domani.
Un omaggio alle vittime? Ascoltare la scienza
I morti del Guadalupe, i feriti di via dei Gordiani, i lavoratori stremati sotto il sole chiedono un tributo che non è fatto di lapidi o di proclami post-tragedia. Chiedono che la smettiamo di trattare i dati scientifici come opinioni contrattabili. La natura non fa sconti: segue le proprie leggi. Ogni volta che le eludiamo, scambiamo l’evitabile con l’inevitabile e scopriamo, sempre troppo tardi, che l’unica vera catastrofe è ignorare ciò che già sappiamo.