La strategia italiana: lo scambio con la Francia sul Mercosur, l’asse discreto con Orban e Trump, il sostegno del Belgio…
Il Consiglio europeo, dopo una maratona notturna prottrattasi fin quasi all’alba, ha individuato la soluzione per garantire il finanziamento del sostegno economico all’Ucraina anche per il 2026 e il 2027, sebbene sia uscita sconfitta l’ipotesi di ricorrere agli asset finanziari russi congelati nelle banche europee. Questa strada era la preferita della presidente della Commissione europea Ursula von der Layen e del cancelliere tedesco Freidrich Merz, nonché del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ma aveva suscitato profonde preoccupazioni in diverse Stati – tra cui l’Italia – circa la legalità dell’operazione.
Il meccanismo individuato è semplice: l’Unione Europea finanzierà l’Ucraina con un prestito a tasso zero da 90 miliardi di euro, reperiti attraverso l’emissione sul libero mercato di titoli di debito pubblico europeo. Tale debito comune (i cosiddetti Eurobond) sarà garantito dal bilancio stesso della Ue. Un punto quest’ultimo fondamentale, perché – nonostante l’assenza di interessi sul debito – appare molto improbabile che l’Ucraina sia capace un giorno di restituire i 90 miliardi tecnicamente prestati dalla Ue.
Kiev, uno stato tecnicamente “fallito”
Ad oggi infatti Kiev resta uno Stato tecnicamente fallito (nel senso che le sue spese superano largamente le entrate e le garanzie finanziarie) a causa dell’emergenza bellica che sta attraversando ormai da quattro anni. Se anche il conflitto con la Russia dovesse concludersi, le ingenti spese per la ricostruzione e l’urgente necessità di continuare a finanziare la propria difesa in caso di ripresa delle ostilità con Mosca renderebbero inverosimile l’applicazione di politiche di bilancio volte a soddisfare i creditori internazionali in tempi rapidi.
Di conseguenza, molto probabilmente sarà quella dell’Unione Europea si rivelerà un finanziamento a fondo perduto, legato a logiche politiche (impedire la caduta dell’Ucraina) piuttosto che a considerazioni esclusivamente economiche. E’ vero che l’Unione non ha chiuso interamente all’ipotesi di utilizzare in un futuro prossimo i beni russi congelati per poter ripagare il proprio debito in caso di mancato rimborso da parte di Kiev: nell’accordo i leader europei affermano di essere pronti a riprendere in considerazione il loro utilizzo «in accordo con il diritto dell’Unione europea e del diritto internazionale», ma nella pratica questa prospettiva resta debole proprio per via di quegli ostacoli giuridici che hanno portato alla vittoria del piano Eurobond.
La soluzione di Roma
Una soluzione, quest’ultima, che porta una firma molto italiana dal momento che è stata Roma, lo scorso 12 dicembre, ha palesare per la prima volta questa proposta con una lettera indirizzata alla von der Leyen in cui si chiedeva di esplorare soluzione alternative all’esproprio dei beni russi. Non a caso, Politico ha incoronato la leader italiana definendola la vera “kingmaker” europea, la leader che è stata più capace di cogliere le varie sensibilità e fare sintesi in un Vecchio Continente. E’ infatti difficile non vedere la strategia adottata da Meloni, forse miope nel distacco con cui ha affrontato un capitolo fondamentale per il futuro del continente come la causa ucraina, ma che è stata coronata dal successo.
Il governo italiano infatti ha mantenuto un basso profilo, ribadendo a più riprese il proprio orientamento filo-ucraino e osteggiando i tentativi di sabotare l’appoggio a Kiev ma lavorando dietro le quinte per far emergere il fronte più dubbioso sulla soluzione del sequestro degli asset russi. Due le ragioni dietro le mosse italiane: da un lato, Roma è consapevole di essere un Paese economicamente esposto e che dovrà esporsi ulteriormente nei prossimi anni per poter finanziare la propria Difesa, non potendo – dunque – accollarsi il rischio di una ipotetica causa plurimiliardaria legata all’esproprio dei beni di Mosca.
Gli asset come scambio per la pace
Dall’altro, la restituzione dei suddetti asset rappresenta una pedina fondamentale nel piano di pace immaginato dall’amministrazione Trump per convincere la Russia a sedersi al tavolo dei negoziati. Pur non condividendo la postura del tycoon, il governo Meloni – per ragioni tanto di interesse nazionale quanto di opportunità politica – ha sempre rifiutato di rompere i propri rapporti con Washington, giocando a cercare un legame privilegiato con gli Stati Uniti in un momento di gelo nei rapporti euro-americani nella convinzione che le frizioni con Trump non possano mettere in dubbio il legame atlantico. Da questo punto Meloni ha costruito con pazienza e discrezione la sua tela.
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In primis, ha coagulato attorno alla sua proposta i Paesi minori europei, meno equipaggiati verso un eventuale crack rispetto alle grandi economie: Malta, Bulgaria, Belgio, Repubblica Ceca,… «Oggi abbiamo provato che la voce degli Stati membri medi e piccoli conta ancora. Le decisioni in Europa non sono prese solamente dalle capitali più grandi», ha scandito trionfamente il premier belga Bart De Wever. In un secondo tempo, Roma ha approcciato la Francia, offrendo il proprio sostegno a un annacquamento dell’accordo commerciale Mercosur tra Europa e America Latina, un anatema per gli agricoltori francesi contro il quale Parigi da settimane stava cercando invano sponde tra i partner continentali.
Detto fatto, dal momento che la proposta italiana di rinviare la firma dell’accordo di due settimane è stata accolta scavalcando le resistenze tedesche. Infine, il controverso ma mai interrotto legame di Meloni con il governo ungherese di Viktor Orban ha contribuito ad aprire una canale che ha portato magiari, slovacchi e cechi ad astenersi sugli Eurobond in cambio di una clausola di opting out che li esentasse dal nuovo piano europeo, ottenendo così quell’unanimità che sembra impossibile conseguire.
E’ un successo che Meloni non rivendica fino in fondo, anche per via di talune ombre che le saranno certamente rinfacciate: l’accusa di eccessiva vicinanza a Washington, la mancata punizione contro Mosca attraverso il sequestro dei suoi beni, il non aver giocato in squadra con la Germania, l’aver offerto una scappatoia ai suoi amichetti est-europei dalle loro responsabilità nei confronti degli ucraini… Eppure, se il giorno dopo l’Europa può dirsi ancora unita, compatta e schierata con Kiev, lo deve un po’ anche a Giorgia Meloni.


















