Dopo l’attentato di Sydney, la presidente dell’UCEI Noemi Di Segni lancia l’allarme sulla riemersione globale dell’antisemitismo
Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni commenta i fatti di Sydney partendo da un allarme più ampio: la riemersione globale dell’odio antiebraico.
Sulle colonne de L’Altravoce affronta il rischio emulazione dopo il 7 ottobre, la confusione tra ebrei, Israele e politica, il tema della sicurezza e la necessità di un lavoro culturale e istituzionale per difendere la democrazia.
Presidente, come vi sentite?
«Siamo molto sconvolti. È una fase davvero dura. C’è lo shock di rivivere, da lontano, i delitti terribili del 7 ottobre, ma c’è anche molta rabbia: quella verso una società civile che non riesce a capire i pericoli che si stanno impadronendo di sé. Il punto critico non è solo la paura per noi ebrei, ma l’incapacità di far comprendere che il rischio riguarda l’intera società».
A cosa si riferisce con “pericoli più ampi”?
«I meccanismi di sicurezza fisica esistono: più vigilanza, più attenzione, più controlli. Ma il problema vero è la psicologia delle masse e di chi prende decisioni collettive senza rendersi conto dei meccanismi di radicalizzazione. Lì c’è una disperazione profonda, perché sembra impossibile spiegare la gravità di ciò che sta accadendo».
Domenica gli spari in Australia…
«Non è qualcosa che nasce in un giorno. Colpisce che sia avvenuto nel primo giorno di Hanukkah. Siamo rimasti scioccati, ma non sorpresi. È stato come rivivere il 7 ottobre: stessi flash, stesse immagini che arrivano sui cellulari, sui canali Telegram. Immediatamente si pensa alle persone che si conoscono, anche dall’altra parte del mondo».
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Che clima avete percepito in quelle ore?
«Il dolore è assoluto, ma dopo il primo momento c’è stata la consapevolezza che, per ciò che accade in Australia da mesi, ce lo aspettavamo. Si è creato un vero e proprio tappeto rosso alle campagne d’odio: non manifestazioni pacate di critica politica, ma piazze che inneggiano al massacro, alla violenza, all’odio. Piazze violente, come purtroppo ne abbiamo viste anche in Europa».
Temete un effetto emulazione globale?
«Sì, assolutamente. È come un invito ad accendere altri focolai. Alcuni agiscono per emulazione, altri fanno parte di reti organizzate, di una catena di domino pianificata. L’allerta è altissima in tutte le comunità e le misure di sicurezza sono state rafforzate».
In Italia vi sentite tutelati?
«Sì, ci sentiamo sostenuti dalla professionalità e dall’attenzione delle forze dell’ordine. Ma il tema non è solo la tutela delle comunità ebraiche: è come la società civile percepisce i pericoli reali che stanno minando la democrazia».
Perché è difficile distinguere tra ebrei, israeliani e governo di Israele?
«È una domanda molto giusta. La confusione nasce da una propaganda che mescola piani diversi. Non tutti gli israeliani sono ebrei e non tutti gli ebrei sono israeliani. Esistono cittadini israeliani non ebrei, anch’essi colpiti dal terrorismo. Tutti gli ebrei hanno un legame profondo con Israele, che fa parte delle radici religiose e storiche, ma questo non coincide automaticamente con le scelte politiche di un governo».
Il termine più distorto sembra “sionismo”.
«Esatto. Per noi il sionismo è il movimento di rinascita del popolo ebraico, nato alla fine dell’Ottocento, prima ancora dello Stato di Israele. Oggi invece “antisionismo” viene usato come parola jolly per legittimare l’odio, come se fosse una formula accettabile per dire “non sono antisemita”. In realtà è una distorsione totale».
Come si può contrastare questa deriva?
«Ripristinando almeno il dizionario della verità. Abbiamo lavorato sui libri di testo insieme alla Conferenza episcopale, intervenendo su termini, cartine, narrazioni. È un lavoro che parte dalla scuola, dalla pedagogia. Senza questo, ogni dibattito pubblico resta superficiale».
Anche il Parlamento deve intervenire?
«Sì. Serve un percorso serio sui disegni di legge contro l’antisemitismo. In particolare il ddl Delrio richiama la strategia nazionale di contrasto all’antisemitismo e introduce un monitoraggio concreto di ciò che scuole e università fanno. Non basta indicare obiettivi: bisogna verificare i risultati».
Vi aspettavate un ritorno così rapido a un clima ostile?
«Assolutamente no. Qui non è in gioco solo la sicurezza degli ebrei, ma la memoria e i valori fondanti della Repubblica. È un’offesa alla storia dell’Italia e alle sue istituzioni. È per questo che siamo così angosciati, questi fenomeni minano i presidi della democrazia».
L’intervento del fruttivendolo musulmano a Sydney ha colpito molti.
«Mi ha colpito profondamente e positivamente. Dimostra che esiste un Islam consapevole, che conosce il terrorismo e lo rifiuta. Ci sono musulmani radicalizzati, ma ce ne sono molti altri che vogliono vivere in pace e sono i primi ad avere paura degli estremisti. Dovremmo ascoltare loro».
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Come prosegue Hanukkah?
«Accendendo le luci, una dopo l’altra. Ogni candela è un gesto di responsabilità. Duemila anni fa Hanukkah fu la difesa della libertà religiosa. Oggi è lo stesso filo: continuare a illuminare un percorso mentre qualcuno cerca di spegnere la luce della ragione».




















