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Paolo Macry: «Per difenderci dovremo barattare il burro con i cannoni»

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Il professore di storia contemporanea presso l’università Federico II di Napoli analizza la nuova strategia Usa: la crisi degli imperi, la debolezza dell’Unione, l’Italia tra debito e post-welfare

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«Trump rompe la solidarietà atlantica in modo brutale com’è il suo solito. Ma soprattutto svela che è in crisi la stessa democrazia atlantica. L’America oggi ha un problema di competitori strategici molto seri. La Cina è una questione strategica almeno da 20 anni».

A commentare le conseguenze della National Security Strategy diffusa dalla Casa Bianca è Paolo Macry, dal 1990 professore ordinario di storia contemporanea presso l’università Federico II di Napoli. Che aggiunge:

«La composizione etnica dell’America del 2025 è cambiata. Poi c’è il declino anche demografico dell’uomo bianco che si accompagna al declino dei ceti medi. Gli europei dovrebbero fare i conti con tutto ciò. Anche perché in America i problemi geopolitici sono entrati nella mentalità, trasformandola»

C’è ormai una sostanziale omogeneità culturale e ideologica tra Putin e Trump?

«La vera analogia è che sono due imperi in crisi. La crisi russa è ancora più profonda di quella americana. Sia Mosca che Washington si muovono per la ricostruzione della loro forza».

Da Trump a Vance a Musk: sull’Europa è in corso un assedio concentrico. L’obiettivo è frammentare la UE e allinearla al modello Maga?

«L’America vuole scindere le sue responsabilità strategiche dall’Europa. Ma nelle reazioni a questa attitudine vedo residui consistenti di un vecchio anti-americanismo che avvelena il dibattito: la sinistra è stata anti-americana fin dagli anni ’50. Ma quando Trump dice agli europei: “difesa e Ucraina sono fatti vostri” mette il dito in una piaga storica. L’Europa rifiutò la sua difesa comune nella prima metà degli anni ’50, accettando di essere difesa dagli Usa per più di mezzo secolo. Abbiamo abdicato alla nostra sovranità e oggi improvvisamente scopriamo il problema. In fondo, gli stati nazionali nascono su fisco e difesa».

Colpa storica degli europei che oggi devono rifarsi tutti i conti?

«Lo spiega il Censis: l’Italia si avvia a una fase di post-welfare. Per difenderci dovremo barattare il burro con i cannoni. Negli Stati che hanno debiti pubblici catastrofici come il nostro, il welfare ne risentirà. La responsabilità politica è nostra: l’Europa è una grande potenza, che poi non si comporti come tale è un altro problema».

I presunti accordi di pace Usa-Russia mirano alla capitolazione dell’Ucraina. Ma la politica e la stampa italiane sembrano affette da sonnambulismo.

«Sì, c’è uno stato di narcosi, sottoscrivo. Ma uno dei motivi è che l’Italia è il paese che ha il debito pubblico più pesante. Rafforzare la difesa significa non solo cannoni e carri armati, ma ricerca scientifica e tecnologica. Per questo serve una grande visione politica, ma siamo disabituati a una politica siffatta: mettere le mani in tasca e farsi i conti è difficile».

Di fronte al linguaggio di Trump sia gli Stati membri che la Ue sono ora “nudi”. Per sopravvivere l’Europa dovrebbe provare a vincere la guerra?

«Nessuno ritiene realistica la vittoria dell’Ucraina, ma una cosa è fermarsi a una soluzione coreana, altra cosa è accettare le condizioni di Putin che vuole l’Ucraina fuori dalla Nato e dall’Europa. Forse per la prima volta dal 1945 gli europei potrebbero assumersi le loro responsabilità».

Dall’unilateralismo americano al multipolarismo: è un ritorno di fatto alle sfere d’influenza pre-1945?

«È ciò che sta accadendo, ma il polo russo resta alla nostra portata. L’Europa manca di una leadership capace di unificarla ma dovrà costruire una strategia per non rassegnarsi a essere vaso di coccio tra gli elefanti globali».

Che cosa manca per fare questo passo?

«L’Europa democratica ha un problema di acculturazione delle proprie opinioni pubbliche. Non faremo mai un passo se gli europei non saranno convinti. Abbiamo vinto la seconda guerra mondiale perché le opinioni pubbliche si sono mobilitate: il nazifascismo fu sconfitto anche dalla resistenza europea. Oggi le quinte colonne del putinismo in Europa sono il segno di opinioni pubbliche che non vogliono mobilitarsi».

Questa sintonia di fondo tra Usa e Russia cambia il panorama politico italiano? Nessuno sembra prenderlo sul serio…

«In Italia pesano i motivi strutturali di cui abbiamo parlato: debito pubblico, post-welfare, antiamericanismo. Nessuno è disposto a fare sacrifici e mettere le mani nel portafoglio per sostenere la sicurezza. A livello di governo, riconosco la posizione di Meloni che dice: “Salviamo l’Occidente”, ma non so quanto sia davvero efficace la sua mediazione tra l’Europa e Trump. Il vicepremier Salvini è un elemento di freno alle politiche europee dell’Italia. Merz, Macron e Starmer sono leader diversamente deboli, ma hanno preso iniziative più forti».

E la sinistra?

«La sinistra raccoglie un’opinione pubblica indifferente che la pensa così: “facciamoci i fatti nostri, ma davvero pensate che Putin ci voglia invadere?”. Deploro le ambiguità del M5s e del Pd: la sinistra è refrattaria alla responsabilizzazione, ma questa prospettiva la indebolisce. L’atlantismo antirusso di Meloni, supportato dal Quirinale, pesa più dei movimenti pacifisti che non vogliono compromettersi. E allora peggio per la sinistra che lucra sulle paure delle persone».

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