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Levi della Torre: «Pena di morte? Così si tradisce l’ebraismo»

Stefano Levi Della Torre commenta la decisione del governo israeliano di reintrodurre la pena di morte e i conflitti interni al mondo ebraico

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Visto il suo profilo intellettuale poliedrico, non è facile presentare Stefano Levi Della Torre. Gli chiediamo un suggerimento: «Presentatemi come un pittore e uno che ha scritto dei libri». In effetti, di libri ne ha scritti parecchi, quasi tutti riguardanti l’ebraismo e la sua millenaria tradizione. Ha insegnato per anni alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano. Adesso è in pensione e si dedica a tempo pieno all’attività artistica.

Ieri alla Knesset è stata approvata in prima lettura la pena di morte per i terroristi arabi. Che reazione provoca tutto questo in una coscienza ebraica?

«Nella tradizione ebraica, nel Talmud, è scritto che un tribunale che emette una condanna a morte è sanguinario. Ma mi pare che le tradizioni siano completamente dimenticate dall’attuale governo israeliano, che finge di essere tradizionale ma che in realtà sta tradendo lo stesso ebraismo. È un regime che tra l’altro applica criteri giuridici diversi a seconda della popolazione a cui si rivolge. È la stabilizzazione dell’apartheid e del suo arbitrio: l’accusa di “terrorismo” è applicata con molta disinvoltura. Si tratta di cose ignominiose ma coerenti con la linea estremista di questo governo. Non possiamo che aspettarci il peggio: per Israele, per i palestinesi, e per l’ebraismo tutto».

Anche per l’ebraismo?

«L’ebraismo sta soffrendo molto per quanto sta succedendo e credo che tutto questo richiederà una resa dei conti molto severa all’interno del mondo ebraico e tra le sue diverse anime. Nel mondo ebraico c’è una spaccatura molto profonda e anche una vasta zona grigia, fatta da chi cerca di non vedere certe cose perché troppo “implicanti”».

Ieri abbiamo visto le immagini raccapriccianti di Ben Gvir che distribuiva dolci dopo il voto alla Knesset. Nelle cronache dei giornali si scrive che questo esecutivo israeliano rappresenta una destra messianica e nazionalista. Più nel dettaglio quale anima dell’ebraismo è incarnata dall’attuale governo?

«Tutti coloro che si rifanno a una religione hanno la possibilità di seguire almeno due vie, tra loro opposte. L’idea che Dio abbia dato agli ebrei una terra e che quindi siamo legittimati a fare qualsiasi cosa non corrisponde ad un’altra anima elaborata nei secoli dall’ebraismo. Quella è un’idea che il grande Yeshayau Leibowitz considerava idolatrica: è l’idolatria della terra e della propria interpretazione unilaterale del testo. Ma tutto questo è contrario alla tradizione talmudica, che è fatta di controversia. Sono stati quindi creati due idoli: da un lato alcuni passi biblici, dall’altro la terra».

L’idolatria della terra riguarda tutti i nazionalismi.

«Sì, ma è qualcosa non all’altezza della spiritualità ebraica nei secoli».

Si pone a questo punto un problema relativo allo stato di salute della democrazia israeliana. Quella verità per cui Israele è l’unica democrazia del medio oriente rischia di svuotarsi di senso?

«Secondo me si è già svuotata. Israele fu l’unica democrazia di quella zona, ma non lo è più. Quel vanto riguarda il passato, siamo di fronte a una mutazione di Israele. Naturalmente spero che gli anticorpi – e gli “antispirito” – siano abbastanza forti da salvare Israele, che però va verso una catastrofe che è anche la catastrofe della democrazia».

Quando è iniziata?

«Con l’intenzione di modificare radicalmente il sistema giuridico israeliano, che aveva generato proteste sistematiche fino al 7 ottobre 2023, quando, con l’aggressione di Hamas, ovviamente è cambiato l’ordine del giorno per Israele».

Per interrompere la catastrofe sarebbe sufficiente una successione politica?

«Si tratta di vedere che tipo di successione. Cambiare l’attuale tendenza sarebbe qualcosa di radicale che rischia di degenerare in una guerra civile. Perché non credo che i coloni e i loro rappresentanti nel governo siano disposti a un cambiamento forte. Reagirebbero con la violenza. Per questo Israele mi pare perennemente sul ciglio di una guerra civile».

Lei personalmente che anima si augura possa prevalere in Israele?

«La mia speranza è che nella diaspora si sviluppi una critica forte nei confronti del governo israeliano. Israele da solo non ce la fa, serve una pressione esterna della diaspora e di tutte le nazioni più o meno democratiche del mondo».

Attualmente non la vede?

«Sicuramente sia nella diaspora che all’interno di Israele gli ebrei sono molto spaccati. Ma Israele ha vissuto una mutazione interna che ha portato a questo governo, che si rifà al Kahanismo, il movimento di un rabbino estremista che a suo tempo era stato dichiarato fuorilegge e che invece ora è ampiamente rappresentato nelle istituzioni. Questo manifesta una mutazione anche del senso comune. Ma per capire le cose è necessario seguire le mutazioni interne».

Vale anche per il sionismo?

«Sì, il sionismo che ha portato alla fondazione di Israele è molto diverso da quello di adesso. C’è stata una mutazione degenerativa. Del resto, anche in Italia il fascismo è stato una mutazione degenerativa all’interno della tradizione del Risorgimento. Le civiltà non sono mai coerenti, sono sempre attraversate da conflitti profondi e contrastate al loro interno».

La speranza è che dopo la degenerazione si guarisca.

«Ma la guarigione implica un conflitto. Siccome le forze interne a Israele sono troppo deboli serve, come dicevo, una forte pressione degli ebrei della diaspora e che questi combattano la manìa di essere d’accordo con Israele qualsiasi cosa esso diventi o faccia».

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