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Gerusalemme, centinaia di coloni israeliani assaltano la Moschea Al-Aqsa

Coloni israeliani assaltano la Moschea Al Aqsa di Gerusalemme provocando tensioni con i palestinesi, mentre sul fronte interno montano le crisi politico-militari

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Almeno 400 coloni israeliani sarebbero entrati ieri nel complesso della Moschea Al Aqsa di Gerusalemme, disturbando il normale svolgimento delle funzioni religiose e improvvisando gite turistiche e tour. Il tutto con il palese intento di creare frizioni con i palestinesi presenti nell’area, da anni soggetti a continui attacchi da parte di israeliani estremisti. Il nutrito gruppo di coloni, la stampa palestinese parla di circa 465 persone, sarebbe stato scortato dalla polizia israeliana, che ha protetto i coloni e ha impedito ritorsioni da parte dei palestinesi.

Una pratica comune in situazioni come quella verificatasi ieri, che è ormai più la norma che un’eccezione nell’area della Moschea di Al Aqsa, divenuta nel tempo il simbolo dell’indipendenza palestinese.

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Nulla di nuovo, dunque, per quanto riguarda le vecchie e incancrenite spaccature della società israeliana, che non sembrano essersi ridotte neanche a seguito dell’apparente tenuta della tregua a Gaza. La polarizzazione interna, aggravata dagli attacchi del 7 ottobre e dalle azioni di alcuni ministri del governo di Benjamin Netanyahu, continua infatti a provocare un’instabilità ormai divenuta cronica, specialmente in quelle zone dove le varie comunità del Paese vivono a stretto contatto. Gerusalemme, in tal senso, è il fulcro di questi scontri tra comunità, così come lo sono alcune zone della Cisgiordania dove gli insediamenti dei coloni israeliani sono stati costruiti a ridosso, e spesso sopra, le terre teoricamente assegnate ai palestinesi.

Corruzione e fughe di notizie scuotono il Paese

E anche sul fronte politico la situazione interna rimane effervescente. Due grandi tematiche dominano infatti da qualche giorno la vita politica israeliana: il caso dell’ex Procuratrice Militare Yifat Tomer-Yerushalmi, accusata di aver divulgato informazioni sui maltrattamenti subiti dai prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane; e le indagini sul caso di corruzione che coinvolge tanto la principale organizzazione sindacale del Paese, la Histadrut, quanto importantissime figure del governo. Proprio riguardo a quest’ultimo caso un alto funzionario dell’unità anti-frode Lahav 433, che sta svolgendo le indagini, ha dichiarato ieri all’israeliana Channel 12 che sono al momento sotto esame possibili legami tra la presunta rete di corruzione all’interno dell’Histadrut e personaggi del governo.

Tra i nomi circolati sulla stampa israeliana anche quelli del ministro degli Esteri Gideon Sa’ar, del ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar e del ministro della Giustizia Yariv Levin, oltre a quelli del ministro delle Comunicazioni, del ministro della Cooperazione Regionale e del ministro dell’Energia. Tutte figure molto importanti del Likud, il partito del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Del resto, proprio il perno dell’intera inchiesta non è altro che un noto affiliato del Likud, l’agente assicurativo Ezra Gabay, accusato di aver usato le sue conoscenze per fare pressioni al fine di ottenere vantaggi economici e politici. Al momento, comunque, i ministri saranno solo chiamati a riferire davanti agli investigatori e non sembra, almeno da quanto comunicato alla stampa, che siano effettivamente indagati.

La bozza di risoluzione Onu di Washington

Per quanto concerne la gestione della situazione a Gaza, la situazione è invece lievemente più calma e sembra ci siano passi in avanti verso la definizione di un piano di stabilizzazione della Striscia. In tal senso, gli Stati Uniti hanno presentato una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in cui vengono definiti i compiti della futura Forza di Stabilizzazione Internazionale. Stando a quanto fatto circolare in merito ai contenuti della bozza, la Forza Internazionale avrà il compito di «stabilizzare l’ambiente di sicurezza a Gaza assicurando il processo di smilitarizzazione della Striscia di Gaza, compresa la distruzione e la prevenzione della ricostruzione delle infrastrutture militari, terroristiche e offensive, nonché la dismissione permanente delle armi dei gruppi armati non statali». Le unità internazionali saranno stanziate sia nell’entroterra della Striscia sia lungo i confini con Israele e l’Egitto, con il compito di fare sia da forza di stabilizzazione che da forza d’interposizione.

Contemporaneamente ai compiti securitari, i militari della Forza Internazionale dovranno anche addestrare nuove forze dell’ordine locali tramite programmi che, presumibilmente, ricalcheranno quelli già avviati anni fa in Iraq e Afghanistan nell’ambito delle missioni svolte in quei Paesi durante la Global War on Terror. Secondo la roadmap di Washington, le prime squadre dovrebbero essere schierate nella Striscia già a partire dal gennaio 2026, anche se visti i tempi ristretti questa ipotesi resta comunque improbabile. La Casa Bianca punta a far passare la risoluzione entro le prossime settimane ma i punti da negoziare sono molti e non è detto che l’approvazione avvenga rapidamente. Su quel fronte, comunque, la situazione sembra molto più promettente di quanto sperato, motivo per cui l’attenzione israeliana è tornata nuovamente a concentrarsi sulle questioni domestiche.

Netanyahu sotto pressione

La cessazione del conflitto, in conclusione, riapre in seno ad Israele tutte quelle spinose questioni di ordine interno che erano rimaste sepolte dalle necessità belliche. Il governo di Netanyahu, particolarmente osteggiato da una parte consistente della popolazione prima della guerra, ha goduto di due anni di relativa stabilità in casa proprio a causa del conflitto. Con la conclusione della guerra, però, il Primo ministro è chiamato ora a tornare ad affrontare le annose questioni lasciate in sospeso dal suo governo, oltre ai nuovi scandali emersi solo di recente. E tutte queste crisi, combinate, potrebbero risultare alla lunga troppo pressanti anche per il particolarmente resiliente Netanyahu.

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