«Quella della lotta al narcotraffico è una motivazione piuttosto debole. La verità è che Trump punta ad avere un governo amico, dunque non apertamente ostile come quello di Maduro, nel suo “cortile di casa”»: Alessandro Politi, in passato consigliere di tre ministri della Difesa italiani e di uno greco e oggi direttore della Nato Defense College Foundation, interpreta così il possibile, imminente attacco degli Stati Uniti alle basi del Venezuela.
Direttore, Washington schiera al largo delle coste Venezuelane una portaelicotteri, tre navi da sbarco e un cacciatorpediniere: qual è il significato di questo spiegamento di forze?
«Di sicuro l’obiettivo di Trump è quello di esercitare la massima pressione psicologica, politica e anche propagandistica che è indispensabile per destabilizzare il regime di Maduro. È un modo per invitare il leader venezuelano ad allinearsi alle politiche statunitensi o, in alternativa, a cedere il potere».
Funzionerà?
«Non so se sia meglio sperare che funzioni o che non funzioni. Nel primo caso, il Venezuela rischierebbe di sprofondare nel caos e non credo che Maria Corina Machado, storica oppositrice di Maduro recentemente premiata con il Nobel per la Pace, abbia la forza per riportare l’ordine nel Paese. Nel secondo caso, invece, gli esiti sarebbero ancora più imprevedibili».
Certo è che il Venezuela è un alleato della Russia di Putin al quale, non a caso, Maduro si è già rivolto per avere aiuto: la prova muscolare di Washington può essere interpretata come una forma di pressione su Mosca, magari affinché fermi gli attacchi all’Ucraina?
«Non c’è dubbio sul fatto che il Venezuela sia un alleato della Russia così come della Cina, del Nicaragua e di Cuba. Così come non c’è dubbio sul fatto che la vera partita sia la guerra in Ucraina, che comunque è del tutto indipendente dal Venezuela. Le priorità di Mosca sono, appunto, il successo nella guerra contro Kiev, la stabilità del consenso interno, il rafforzamento dell’asse con Cina e Corea del Nord».
Vuol dire che per Putin il Venezuela è un alleato sacrificabile?
«Proprio così, almeno rispetto a questioni prioritarie come la vittoria nella guerra in Ucraina. Putin non patirà un danno irreparabile, qualora dovesse perdere un alleato come Maduro. Per lui è molto più importante un alleato come la Cina che dalla Russia acquista petrolio. E che, inoltre, difficilmente andrà in urto con Washington dopo che due giorni Xi Jinping ha raggiunto un’intesa con Trump, peraltro trattando da una posizione di forza».
Quindi la Russia non reagirà?
«La Russia potrà protestare dinanzi all’Onu e sollecitare la convocazione del Consiglio di sicurezza. Ma qualsiasi risoluzione dovesse essere approvata da quest’organo potrà essere comunque bloccata dal veto degli Stati Uniti».
È più realistico credere che l’obiettivo di Trump in Venezuela sia la lotta al narcotraffico?
«Mi sembra una motivazione piuttosto fragile. Qualcuno sostiene che Maduro sia legato al Tren de Aragua, cartello della droga che sarebbe apertamente ostile agli Stati Uniti, o a Los Soles, organizzazione di cui si parla dal 1993 e che nel 2025 è stata dichiarata terroristica. Ma è tutto molto difficile da dimostrare».
Qual è il vero obiettivo?
«Avere in Venezuela, cioè nel suo “cortile di casa”, un governo amico che non flirti troppo con Russia e Cina. E ribadire il principio secondo il quale, in Occidente, gli Stati Uniti sono e restano la superpotenza egemone».
Il cambio di regime è possibile?
«È un obiettivo plausibile, ma rischioso. Innanzitutto perché un regime change è capace di compattare l’opinione pubblica del Paese interessato e perché, in un secondo momento, quello stesso Paese va pacificato. E tutti sappiamo che in Iraq e in Libia, dopo il rovesciamento di Saddam e Gheddafi, non è andata esattamente come gli americani speravano».









