Il ministro Crosetto denuncia la propaganda russa in Italia: “È guerra ibrida e cognitiva”. Il politologo Di Gregorio: “Prima dei territori, si conquistano le menti”
Il ministro Crosetto non ha usato mezzi termini, nel denunciare l’opera di infiltrazione della propaganda russa in Italia, definendolo un atto di «guerra ibrida e cognitiva».
Una distinzione importante. È una distinzione molto importante, quella tra ibrida e cognitiva: la prima pertiene alle modalità di azione di Mosca, che muove strumenti offensivi che esulano dall’ambito militare tradizionale (creando così un conflitto “misto” o – appunto – ibrido); il secondo invece caratterizza l’obiettivo dell’azione, vale a dire il patrimonio cognitivo della collettività presa di mira. In altre parole, la sua capacità di cogliere la realtà da un punto di vista psicologico.
Un’altra distinzione fondamentale, connessa strettamente a quest’ultimo punto, è quella delle «persone insospettabili e corrotte dalla Russia», che secondo il ministro non sarebbero state però corrotte in senso materiale bensì condizionate – appunto – a rispondere più o meno inconsapevolmente a determinate parole d’ordine veicolate dalla propaganda russa.
Di Gregorio: «Prima della terra si conquista la mente»
Ne parliamo con Luigi Di Gregorio, politologo e professore associato di scienza politica all’Università della Tuscia, autore di un volume prezioso sull’argomento (“War Room. Attori, strutture e processi della campagna permanente“, Rubbettino, 2024).
«Crosetto, in questo caso, non usa un linguaggio apocalittico ma un linguaggio realistico. Nel senso che oggi la guerra non si combatte solo con i carri armati ma anche con gli algoritmi, prima di conquistare un territorio si conquistano le menti di quel popolo, di quel territorio», spiega il professore.
Guerra ibrida che attacca la percezione
«George Lakoff, che è un neuroscienziato americano diceva che il futuro della comunicazione politica – o, meglio, della competizione politica – è il cervello umano. In qualche modo aveva anticipato quello che sta accadendo, nel senso che la Russia, che è il caso più noto da anni, e non solo la Russia, investe in operazioni di influenza digitale, che vuol dire far campagna di disinformazione, clona siti, gestisce reti di troll, di bot, accanto a automatici che amplificano in qualche modo le divisioni, messaggi di sfiducia, le teorie del complotto, eccetera.
È successo già ed è documentato in Germania, in Francia, in Spagna, negli Stati Uniti, a sentire Crosetto sta succedendo anche da noi, ma non è una novità, la novità è la guerra ibrida, che non attacca tanto le infrastrutture fisiche ma quelle cognitive, cioè la fiducia, la percezione e in qualche modo anche l’identità delle persone», fa il punto tratteggiando la rete virtuale che il Cremlino ha testo attorno al Vecchio Continente.
Il neuromarketing di Mosca
Si potrebbe parlare, dunque, di un doppio piano di intervento: da un lato una questione – quasi tattica – di “marketing politico”, vale a dire favorire un certo partito o candidato alle elezioni; dall’altro, invece, un fine più strategico, cioè far passare un messaggio, magari non direttamente legato a un soggetto da promuovere ma un tema da far prevalere nel dibattito pubblico.
Per esempio, “negativizzare” le armi come elemento del dibattito politico, così da influenzare l’opinione pubblica in senso ostile alla Difesa europea. Di Gregorio non ha dubbi, in merito: «L’obiettivo non è solo convincerti di una specifica fake news o di votare un partito piuttosto che un altro, ma proprio cambiare il quadro dentro cui valutiamo ciò che è vero e ciò che è falso.
Si tratta di un lavoro lento, che passa soprattutto per i social, ovviamente, che fa passare messaggi come l’Occidente è ipocrita, l’Ucraina è corrotta, meglio Putin che l’instabilità, cose del genere.
Potremmo definirlo una specie di neuromarketing geopolitico. Neuromarketing perché va appunto a lavorare sui bias cognitivi, va a lavorare sulle decisioni, sull’inconscio, in qualche modo, delle persone, sfruttando il fatto che il 95% delle decisione di ogni giorno vengono prese sotto la soglia di consapevolezza». Un meccanismo naturale, che però ben si presta a “interferenze cognitive” a scopo manipolatorio.
Addio alle spie, non servono più
«La novità è che oggi non servono più spie sul territorio, valigette piene di contanti come nei film, basta una rete social polarizzata, un algoritmo che amplifica certe emozioni e il menù è servito. Ovviamente sarà amplificato ancora di più col galoppare dell’intelligenza artificiale. – è il giudizio del docente dell’università della Tuscia – Questo non vuol dire che per difenderci tocca fare nuove leggi o no, nel senso che secondo me ci facciamo poco. Servono anticorpi culturali che ovviamente implicano un tempo più lungo e anche una disponibilità della popolazione ad affrontarlo, che significa educazione digitale, la famosa media literacy, significa allenamento al pensiero critico, la complessità, a capire come funziona il nostro cervello, quindi in qualche modo anche
un minimo di conoscenze di psicologia cognitiva, di neuroessenza, cioè a capire se io reagisco in un certo modo».
La necessità del pensiero critico
Un lavoro che manca, mentre per inverso Mosca non ha mancato di fare i compiti a casa – come ha sottolineato lo stesso Crosetto – per quanto riguarda le capacità offensive del disinformazione propagandistica e cognitiva. «I russi anno fatto un enorme lavoro sui paesi limitrofi, su tutta l’Europa orientale, quindi Ungheria, Polonia, eccetera», riconosce De Gregorio, che tuttavia vede il vero bersaglio altrove: «Sull’Occidente ovviamente giocano a spaccarlo e indebolirlo, hanno puntato sui Big Four, quindi Italia, Spagna, Francia e Germania, con l’obiettivo
appunto di questo schema è l’Unione Europea.
Come già Sun Tzu ci aveva insegnato migliaia di anni fa, se tu indebolisci in qualche modo psicologicamente l’esercito altrui hai già vinto. In questo caso l’esercito è proprio un’opinione pubblica, nel senso che se tu spacchi l’opinione pubblica degli altri paesi gli hai creato un problema importante. Quindi è chiaro che è un investimento su cui tutti i paesi che hanno interesse, chiamiamolo imperialistico, comunque di espansione o comunque anche di soft power, oggi probabilmente in qualche modo lo mettono in campo».
La lezione di Sun Tzu
La massima di Sun Tzu si sposa bene con l’insegnamento lasciato ai suoi soldati dal generale britannico Claude Auchinleck: perché un nemico sia sconfitto, prima deve credere di esserlo. Insomma, alimentare il disfattismo interno è la via maestra per vincere una guerra senza combatterla, proprio come voluto dallo stratega cinese. Anche per questo il riferimento all’opinione pubblica, espresso tanto dal professor di Gregorio quando da Crosetto, risalta nella sua semplicità rivoluzionaria. Essa sottolinea infatti quella che sembra ormai essere una caratteristica del conflitto contemporaneo, ovvero il suo carattere totalizzante, senza limiti, che chiama tutta la società a fare i conti con questa nuova minaccia. La quale, travalicando i confini bellici del campo di battaglia, diventa uno scontro esteso a ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
Il parere delle persone
Di Gregorio concorda e ricorda Napoleone, secondo cui non conta ciò che è vero ma quello che la gente crede sia vero. «Non esiste regime politico, che sia democratico, che sia autoritario, che sia totalitario, che riesce a sopravvivere senza una legittimazione minima del suo popolo – spiega infatti – Anche i totalitarismi e gli autoritarismi, con tutto il terrore che possano imporre, implodono se non c’è un minimo di legittimazione.
La democrazia e l’opinione pubblica ci campano proprio, Sartori diceva che la democrazia è il governo dell’opinione quindi è ancora più facile, mentre è abbastanza noto che i regimi autoritari, e ancora più quelli totalitari, al loro interno campano di propaganda, grazie a sistemi di sorveglianza totalmente controllati. Al contrario, sistemi aperti come il nostro ovviamente hanno un Trojan, una porta di servizio sul cui entrare e lavorare sull’opinione pubblica.
La democrazia è infatti costretta a inseguire costantemente l’opinione pubblica, pena una crisi di legittimazione, dunque il danno è immediato. Non a caso da anni si parla di followership che ha sostituito la leadership, cioè i leader occidentali sembrano più inseguitori dell’opinione pubblica piuttosto che leader che hanno grandi visioni».
Democrazie vs autocrazie
Il confronto tra democrazie e autocrazie che il professore pone anche nel campo dei modelli di leadership evidenzia un altro aspetto chiave di questa competizione, vale a dire il carattere peculiare della sfida al
sistema democratico. Perché la provocazione è evidente quando una democrazia è costretta ad affrontare l’emergere di forze anti-sistema alimentate da forze esterne ostili ma contro la quale non può agire, pena
il venir meno del proprio carattere democratico (e, dunque, della propria legittimità). Al di là della Germania, il recente caso rumeno ce lo ha dimostrato platealmente e pone il grave interrogativo del ritorno a un’epoca in cui lo scontro geopolitico globale finisce per essere traslato nel dibattito elettorale domestico. «Potremmo dire che se oggi c’è una specie di guerra fredda, un duopolio, e su questo devo dire che Giorgia Meloni è molto chiara quando dice “io voglio tenere unito l’Occidente, non mi pongo il dubbio se essere con gli Stati Uniti o con l’Europa. Bisogna essere con gli Stati Uniti e con l’Europa perché la sfida è all’Occidente intero”.
Se c’è una sfida planetaria probabilmente oggi è tra regimi democratici e non, perché alla fine dei conti le saldature più o meno forti tra Cina, Russia, Corea del Nord, Iran, sono ipotetiche ma si pongono come alternative a tutto il blocco occidentale», afferma quindi Di Gregorio mettendo in luce le grandi dinamiche mondiali che si nascondo dietro un apparentemente innocuo post su Facebook scritto magari da qualche bot inanimato. Una competizione globale, dunque, che si gioca su più fronti.
L’accordo su TikTok
Non a caso, questa settimana Donald Trump si vedrà con Xi Jinping e discuteranno della cessione di TikTok, la cui sezione americana si appresta a essere nazionalizzata in quanto giudicato un rischio per la sicurezza nazionale, prima ancora di avere la certificazione di un’opinione pubblica inquinata. «Perché loro negli Stati Uniti hanno dei report da anni in cui sostengono che tutto ciò che è digitale e made in China, comunque è controllato dal governo di Pechino. Dunque capisco che avendo tale convinzione si siano posti il tema di offrire questo fianco a quello che è il principale competitore a livello globale».
Se sia il caso di porsi questo tema anche in Europa è una domanda seria, per quanto provocatoria, anche alla luce di quanto detto sul legame inscindibile tra legittimazione del regime politico democratico occidentale e la libertà di espressione garantita ai suoi cittadini sui social che preferiscono.









