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Australia, Cairns al tramonto è un sogno che cammina

La città non ha la frenesia di Sydney né l’eleganza discreta di Melbourne. È un luogo che respira in modo lento

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Sono arrivato a Cairns con il sole che si scioglieva come burro fuso sull’orizzonte del Pacifico. La città non ha la frenesia di Sydney né l’eleganza discreta di Melbourne. È un luogo che respira lentamente, con i piedi nudi nell’acqua del mare e la testa tra le fronde delle palme. Qui, il tempo sembra dilatarsi, come la linfa che scorre negli alberi del tropico. Come di consueto, appena depositato il bagaglio in albergo, esco per il primo contatto con la città. Cammino lungo il Cairns Esplanade, dove l’aria è umida e profuma di sale, frutta matura e caffè tostato. I ciclisti sfrecciano, i turisti si fermano a fotografare il tramonto sul reef (la barriera corallina)  invisibile. È davvero uno spettacolo magnifico, ma io cerco come sempre anche qualcosa di meno visibile: le storie nascoste tra le crepe del marciapiede, nei sorrisi degli sconosciuti, nei silenzi delle persone che qui ci vivono da sempre.

Mi siedo su una panchina di legno, accanto a un anziano con la pelle segnata dal sole e gli occhi di un colore che ricorda la terra rossa del centro. Si chiama Jimmy, mi dice dopo un po’, senza togliere lo sguardo dal mare. È un Yidinji, uno dei popoli tradizionali di queste terre. «Questo posto non è solo una stazione turistica», mi dice, la voce bassa e calma. «È un sogno che cammina. Noi lo chiamiamo Gimuy. Da migliaia di anni, le nostre storie sono scolpite nella roccia, nel vento, nelle stelle. E ora vediamo i turisti che vengono per il Reef, ma non sanno che il vero cuore è qui, a terra».

Gli chiedo della Dreamtime (il momento del sogno). Lui sorride. «La Dreamtime non è un tempo passato. È adesso. Ogni passo che fai, ogni albero che tocchi, è parte di una storia viva. Quando cammini, ascolta. La terra parla». Lo ringrazio con un cenno, e lui si alza lentamente, sparendo tra le ombre del crepuscolo come un personaggio uscito da un mito. Riprendo anch’io a girovagare senza meta, lasciandomi come sempre trasportare dal flusso dei passi e dallo sguardo sulle case e sulle persone. Il sole è definitivamente tramontato, si fa sera. Mi arrivano odori, voci e rumori da una via laterale.

Il Night Market si anima. Luci colorate, musica dal vivo, bancarelle di artigianato aborigeno. Mi fermo davanti a una donna che intaglia legno con gesti precisi, quasi rituali. Si chiama Marnie, è della nazione Kuku Yalanji. Sul tavolo, una serie di didgeridoo dipinti con motivi tradizionali. Mi fermo a guardarli. Li comprerei tutti. Lei se ne accorge e sorride. «Ogni simbolo racconta una storia», mi spiega, indicando una spirale rossa. «Questa è l’acqua che scorre. Questa», tocca un cerchio nero, «è il fuoco del primo uomo. Noi non vendiamo oggetti. Vendiamo memoria».

Le chiedo se la sua cultura resiste. «Resiste, sì. Ma è stanca. I giovani studiano a Brisbane, dimenticano la lingua. Però», sorride, «qualcuno torna. E quando torna, porta con sé qualcosa di nuovo, ma con le radici nel suolo». Compro un piccolo ciondolo di pietra nera: un serpente arcobaleno, Ngalyod, spirito creatore. Marnie me lo mette in mano con un cenno solenne. «Portalo con rispetto. Non è un souvenir. È un invito».

Il mattino dopo, mi avvio verso la stazione ferroviaria di Cairns. Oggi salgo su un treno che sembra uscito da un’altra epoca: il Kuranda Scenic Railway, un convoglio rosso e oro che si inerpica tra le montagne della Great Dividing Range. Il treno parte con un fischio nostalgico. Fuori, la foresta pluviale si apre come un libro antico. Vedo cascate nascoste, uccelli che sembrano dipinti – pappagalli rainbow lorikeet, uccelli del paradiso – e radici che si intrecciano come vene del mondo. Sul treno, mi siedo accanto a una coppia di anziani, lui con un cappello di paglia e un libro di botanica in grembo. Si chiamano Lena e Tom, vivono a Kuranda da trent’anni. «È un posto per chi cerca qualcosa di diverso», dice Lena. «Non è solo turismo. È una comunità. Artisti, artigiani, gente che ha deciso di vivere lentamente».

Tom aggiunge: «Qui, la natura non è un parco. È un padrone di casa. Devi imparare a condividerla». Arrivo a Kuranda: un paese sospeso tra cielo e terra. La stazione di Kuranda è un edificio in legno scuro, ricoperto di rampicanti, come se la foresta stesse lentamente reclamando ciò che le appartiene. Appena scendo, l’aria cambia: è più fresca, più densa, carica di umidità e di un profumo indefinibile – muschio, terra bagnata, fiori notturni appassiti. Il villaggio si snoda lungo una strada principale in salita, fiancheggiata da bancarelle di artigianato, gallerie d’arte, caffè con musica dal vivo e negozi di cristalli, incensi e libri di spiritualità. M

a Kuranda non è solo un mercato pittoresco. È un luogo che pulsa di una vita alternativa, quasi rituale. Cammino lentamente, da vero flâneur, senza meta, lasciandomi guidare dagli odori, dai suoni, dagli sguardi. Mi fermo davanti a un chiosco di tè alle erbe, dove una ragazza con i capelli intrecciati con fiori di ibisco mi offre un infuso di lemon myrtle. «È una pianta sacra per i Djabugay», mi dice. «Pulisce il corpo, ma anche la mente». La ringrazio e bevo lentamente, seduto su una panchina di legno, osservando la gente che passa: turisti con macchine fotografiche appese al collo, artisti con tele sottobraccio, bambini che corrono dietro a un cane senza guinzaglio. E poi, in mezzo a tutti, lei. Una donna anziana, seduta su una sedia di vimini davanti a una piccola galleria di arte aborigena. Ha i capelli grigi raccolti in una treccia, e occhi che sembrano leggere oltre la pelle. Sul cartello accanto a lei c’è scritto: Aunty Carol – Djabugay Elder, Storyteller. Mi avvicino con rispetto.

«Sei qui per vedere le opere?», chiede, senza alzare lo sguardo dal dipinto che sta restaurando. «Sono qui per ascoltare», rispondo. Lei sorride appena. «Allora siediti. Il tempo è lungo qui. Abbiamo tutto».

Carol è della nazione Djabugay, tradizionali custodi di queste montagne. Parla con una voce calma, ma profonda, come il rumore del fiume sotterraneo. «Kuranda non è solo un villaggio. È un punto di incontro tra mondi. Tra cielo e terra, tra passato e presente, tra noi e la foresta. Questa montagna, Kuranda, è viva. Quando piove, canta. Quando il vento soffia tra le palme, racconta storie.» Le chiedo della Dreamtime. Lei annuisce lentamente. «La Dreamtime non è un mito. È la legge. È la struttura del mondo. Quando i nostri antenati camminavano qui, non lasciavano impronte. Lasciavano storie. Ogni roccia, ogni albero, ogni sorgente ha un nome, una funzione, una responsabilità». Mi racconta del serpente arcobaleno, Ngalyod, che ha creato i fiumi e le valli, e di come, durante la stagione umida, la sua voce si senta nel tuono. «Ma oggi», aggiunge, «molta gente viene, vede le cascate, compra un souvenir, e se ne va. Non ascolta. Non sente il battito del luogo». Le chiedo se posso camminare lungo un sentiero che conduce a una cascata. Lei annuisce. «Vai. Ma prima, tocca la roccia con la mano sinistra. È il cuore».

Seguo il Barron Falls Track, un sentiero di legno sospeso tra le felci giganti. L’aria è fresca, il canto degli uccelli è incessante. A un certo punto, il sentiero si apre su una piattaforma panoramica: davanti a me, il Barron Falls precipita in una gola verde smeraldo, spruzzando nebbia nell’aria.

Resto in silenzio. Non c’è bisogno di parole. La natura racconta tutto. Un uomo accanto a me, con la pelle scura e un tatuaggio tribale sul braccio, mi guarda e sorride. «È potente, vero?», dice. Si chiama Dylan, è un artista Djabugay che vive a Kuranda da dieci anni. Dipinge su seta, e le sue opere sono esposte in una galleria poco lontana. «La cascata è una divinità femminile per noi», mi spiega. «È la madre che nutre. Ma è anche severa. Quando la foresta soffre, lei si ritira. È un segnale».

Dylan mi invita a visitare il suo studio. È una capanna di legno su palafitte, circondata da piante medicinali. Sul muro, una serie di tele: serpenti arcobaleno che si intrecciano con alberi della vita, spiriti animali che danzano tra le nuvole. «La mia arte non è decorativa», dice. «È un atto di memoria. Ogni colore ha un significato. Il rosso è la terra. Il giallo è il sole. Il nero è la notte, il mistero». Parliamo a lungo, mentre il vento scuote le foglie del baniano fuori dalla finestra.

Cairns è affascinante per le moltissime persone che hanno voglia di raccontare storie legate alle culture di questa terra lontanissima. Anche se, per me, ci sono comunque troppi turisti. Ho paura che prima o poi finiranno con l’offuscarne l’anima, con questa incessante baraonda di gente che viene qui solo per un selfie e un souvenir.

Decido di tornare a Cairns non con il treno, ma con la Skyrail Rainforest Cableway, la seggiovia che attraversa la foresta pluviale a 400 metri d’altezza. Salgo a bordo di una cabina trasparente, e in un attimo mi sollevo dal suolo. Sotto di me, la foresta si estende come un oceano verde, con chiome che ondeggiano come onde. È un punto di vista che cambia tutto: non sono più un camminatore, ma un uccello, uno spirito che osserva dall’alto. La seggiovia ha quattro stazioni. Mi fermo a Red Peak, la più isolata, dove un sentiero corto conduce a una piattaforma nel cuore della foresta primaria. Un ranger aborigeno, Liam, mi accoglie con un sorriso. «Questo è uno dei luoghi più antichi del pianeta», dice.

«Questa foresta ha 130 milioni di anni. Più vecchia dei dinosauri». Mi mostra una pianta carnivora, una Nepenthes, e un albero con radici aereali che sembrano arti protese verso il cielo. «La foresta non ha fretta», aggiunge. «Cresce lentamente, con pazienza. Forse dovremmo imparare da lei». Riprendo la seggiovia. Al tramonto, la luce filtra tra le nuvole come oro liquido. Vedo il fiume Barron che serpeggia, le colline che si tingono di viola, e in lontananza, il mare. È un viaggio verticale, non solo geografico. È come se la seggiovia mi stesse portando non solo a Cairns, ma fuori dal tempo.

Il giorno dopo, seduto al tavolino del bar, incontro Ella, una biologa marina di origini Torres Strait Islander. Ha gli occhi chiari, quasi dorati, e parla del reef come di un parente. «Noi non diciamo “Grande Barriera Corallina”», mi dice. «Noi diciamo Bama Wandalama – la casa del popolo. Perché il reef non è solo coralli. È una comunità. Pesci, tartarughe, squali, alghe… tutti hanno un posto, un ruolo». Indossa una collana di conchiglie e semi. «Questa», dice, toccandola, «è fatta da mia nonna. Lei diceva che il mare ci parla con le onde. Ma solo se stai fermo». Le chiedo del riscaldamento globale. Diventa triste e dice:  «Il reef soffre. Ma non è ancora finita. Noi continuiamo a cantare le canzoni delle acque. Perché la terra, il mare, la gente… sono una sola cosa. Se uno soffre, soffrono tutti».

Al rientro a Cairns, mi siedo di nuovo sull’Esplanade, con il serpente arcobaleno di pietra nera di Marnie tra le mani. Ho camminato tra i vivi e i sogni, ho ascoltato voci antiche in un mondo veloce, ho volato sopra la foresta e nuotato tra i morti e i vivi del reef. Cairns e Kuranda non sono solo luoghi. Sono respiri profondi in un mondo affannato. Luoghi dove il tempo si scioglie, e dove, se cammini con gli occhi aperti e il cuore in ascolto, puoi incontrare anime che parlano la lingua antica della terra. E forse, è proprio questo il vero viaggio: non andare lontano, ma andare in profondità.

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