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Bibi accetta l’accordo di Trump, ma ora la maggioranza è a rischio

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L’accordo presentato alla Casa Bianca il 29 settembre ha messo a nudo tutte le contraddizioni di un premier intrappolato tra la necessità di salvare gli ostaggi e la sopravvivenza politica di una coalizione appesa a un filo. Con soli 60 seggi su 120 alla Knesset, Benjamin Netanyahu governa oggi Israele con la maggioranza più risicata della storia democratica del Paese. Il sesto governo Netanyahu, formatosi nel dicembre 2022 con 64 seggi, ha già perso quattro deputati fondamentali: i sette seggi dell’Ebraismo della Torah Unito, usciti dalla coalizione lo scorso 17 luglio per i disaccordi sull’esenzione dal servizio militare degli ultraortodossi.

Una defezione che ha ridotto la maggioranza governativa a 48 seggi del blocco di governo più 12 di appoggio esterno (Shas e Noam), lasciando Netanyahu in una situazione di equilibrio estremo dove ogni singolo voto può risultare decisivo. I sondaggi dipingono uno scenario ancora più drammatico per il Likud: le rilevazioni di settembre 2025 assegnano al partito del premier solo 25 seggi contro i 31 attuali, mentre l’opposizione guidata dal nuovo partito di Naftali Bennett raggiungerebbe i 24 seggi.

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E il piano di Donald Trump per Gaza ha scatenato la reazione più dura proprio dai partner governativi di estrema destra. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e leader del Partito Sionista Religioso, non ha risparmiato critiche feroci: «Un clamoroso fallimento diplomatico, un atto di cecità volontaria che ignora ogni lezione del 7 ottobre». Il ministro, che controlla sette seggi cruciali per la maggioranza, ha aggiunto che secondo la sua valutazione l’accordo «finirà in lacrime», lasciando però aperta la questione se ritirerà il suo partito dalla coalizione.

Le parole di Smotrich rivelano la profonda frattura ideologica all’interno del governo: «Il piano segna un ritorno a un’era di colloqui di pace israelo-palestinesi a cui mi oppongo fermamente», ha scritto in un lungo post sui social, definendo la situazione «un caso tragico di leadership che si astiene da qualsiasi visione». Il ministro delle Finanze, che dopo l’attacco del 7 ottobre ha chiamato Israele a occupare e ricolonizzare Gaza definendola «inseparabile» da Israele, vede nell’accordo Trump-Netanyahu «una storica occasione mancata per liberarsi finalmente dalle catene di Oslo».

Anche Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale e leader di Otzma Yehudit, mantiene un silenzio che preoccupa Netanyahu. Il suo partito, forte di sei seggi, aveva già minacciato in passato di abbandonare la coalizione per accordi di cessate il fuoco. Ben-Gvir ha definito in precedenti dichiarazioni simili iniziative come «resa morale», e la sua posizione sul piano Trump rimane cruciale per la sopravvivenza del governo.

In un paradosso della politica israeliana, l’opposizione si è mostrata più compatta del governo nel sostenere il piano americano. Yair Lapid, leader dell’opposizione e di Yesh Atid, ha dichiarato: «I venti punti che Trump ha presentato non sono perfetti, ma rappresentano la migliore opzione sul tavolo». Il leader centrista ha rivendicato di aver elaborato «un piano molto simile» un anno fa, aggiungendo che «l’esperienza degli Accordi di Abramo dimostra che il metodo di Trump funziona».

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Anche Yair Golan, leader dei Democratici, ha espresso un cauto ottimismo: «Si tratta di un accordo sul tavolo da oltre un anno. Dobbiamo sperare che questa volta venga effettivamente attuato, che i rapiti tornino finalmente a casa e che questa guerra politica giunga alla fine». Golan ha però lanciato un attacco diretto a Netanyahu, sostenendo che la guerra di Gaza «ha da tempo cessato di avere uno scopo di sicurezza» e che il premier dovrebbe chiedere scusa «ai rapiti e alle loro famiglie, alle famiglie in lutto e a tutti i cittadini israeliani che combattono da due anni».

In tutto ciò, assume particolare rilevanza la dichiarazione del presidente Isaac Herzog, che ha accolto favorevolmente il piano Trump: «Il piano presentato dal presidente americano offre una concreta speranza per il rilascio degli ostaggi, per garantire la sicurezza di Israele, per porre fine alla guerra e per cambiare la realtà nella Striscia di Gaza e in Medio Oriente verso una nuova era di partenariato regionale e internazionale». Ma la mossa più significativa di Herzog riguarda la questione giudiziaria che pende sulla testa di Netanyahu.

Il presidente israeliano ha fatto sapere di stare «valutando» la concessione della grazia al primo ministro nei tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Una dichiarazione che ha scatenato le reazioni dell’opposizione, con accuse di «colpo allo stato di diritto», ma che potrebbe rappresentare per Netanyahu una via d’uscita onorevole dalla scena politica in caso di caduta del governo. Il premier israeliano si trova oggi in una posizione paradossale: per la prima volta dall’inizio della guerra, «sembra che le conseguenze dell’evitare questo accordo fossero peggiori delle conseguenze dell’accettarlo», come osserva la Bbc.

La pressione americana, combinata con il deterioramento dei sondaggi e l’isolamento internazionale crescente, ha costretto Netanyahu a una scelta che rischia di costargli il governo ma potrebbe salvarlo politicamente nel lungo termine. Le sue prime dichiarazioni al ritorno da Washington tradiscono questa tensione: «Assolutamente no. Non è nemmeno scritto nell’accordo», ha risposto quando gli è stato chiesto se avesse accettato uno Stato palestinese, aggiungendo: «Ma abbiamo detto una cosa: che ci opporremmo con forza a uno Stato palestinese». Un tentativo di rassicurare la sua base elettorale che però potrebbe non bastare a tenere unita la coalizione.

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