Prima teorico della Nuova Destra italiana, poi, dopo la caduta del Muro e la crisi delle ideologie, convinto critico della concezione assiale della politica, quella ancorata allo schema ottocentesco destra-sinistra. Marco Tarchi, oggi professore emerito all’Università di Firenze, è tra i più illustri studiosi e interpreti del pensiero conservatore, dei movimenti populisti, del fascismo e del post-fascismo. Con lui ragioniamo della recente deriva del dibattito politico e del primato della violenza nel confronto pubblico.
Professore, il caso Kirk ha infiammato il dibattito pubblico. Le destre di tutto il mondo ne fanno un martire, mentre le sinistre puntano a smontarne il mito. Lei che idea si è fatto?
«Credo che, al di fuori degli Stati Uniti, Kirk fosse un personaggio poco conosciuto dai partiti e dagli elettori di destra. Le modalità della sua uccisione erano evidentemente destinate a farne un simbolo di cui appropriarsi o da vilipendere. Le letture affrettate e frammentarie dei suoi discorsi, da una parte e dall’altra, ne sono una dimostrazione. Penso comunque che a destra si continuerà a citarlo a lungo, facendone una sorta di immaginetta propiziatoria, mentre a sinistra, una volta passati questi sfoghi a caldo, si cercherà di cancellarne il ricordo».
Con il caso Kirk è tornato al centro del discorso pubblico il tema della violenza politica. C’è chi dice che oggi il primato della violenza è a sinistra. È d’accordo?
«Per quanto riguarda gli Stati Uniti, non ne sono sicuro: la società nordamericana è così polarizzata che l’intolleranza è una caratteristica comune ad entrambi i fronti. In Europa, invece, non da oggi la sinistra radicale è largamente all’avanguardia nell’uso della violenza nei confronti degli avversari, descritti e vissuti come nemici esistenziali da annientare. Per averne prova, basta leggere la vasta pubblicistica dei movimenti “antifa”, dove l’idea che “uccidere un fascista non è un reato” si è evoluta in un “è un dovere civico”. Questa realtà è coperta dalla tendenziale simpatia di gran parte degli operatori dell’informazione che si professano di sinistra senza fare professione esplicita di radicalismo, e anzi a parole se ne discostano. Ma, malgrado le ipocrisie, rimane una realtà. Se si facessero inchieste “sotto copertura” nei centri sociali sul tipo di quelle di Fanpage sui giovani di FdI, ci se ne renderebbe conto».
Negli Usa il mondo Maga si fa latore di battaglie identitarie ed esistenziali contro nemici come la cultura woke e l’immigrazione. Qual è lo stato del conservatorismo nell’Occidente di oggi? Chi sono i suoi nemici, quelli veri e quelli presunti?
«Quella del conservatorismo è, da sempre, una nebulosa di cui è molto difficile fissare i confini. I teorici, almeno dal Settecento in poi, non mancano, ma ciascuno ha una visione propria. Da Joseph de Maistre a Gómez Davila o a Roger Scruton, il mosaico è molto variegato. E le sue (inconsapevoli) traduzioni pratiche in partiti e movimenti lo sono almeno altrettanto. In genere, i conservatori si limitano a reagire a situazioni e processi che giudicano negativi, ma di rado propongono soluzioni alternative che vadano oltre la resistenza su ciò che “c’era prima”. In questo quadro, il nemico è certamente il progressismo, che a sua volta ha molte diverse espressioni ma sa compattarsi sugli obiettivi immediati. Il terreno di scontro principale, oggi, è quello dei “temi etici”, che i progressisti amano, per convenienza, chiamare dei “diritti civili”».
In Italia c’è chi ha scomodato addirittura paragoni con le brigate rosse o, in generale, con il clima di tensione degli anni di piombo. È un paragone azzardato o la forte polarizzazione del dibattito politico di oggi ha effettivamente delle analogie con quel passato?
«Al momento, è un paragone fuori misura, che può avere un effetto-boomerang: chi li ha vissuti, sa bene come il clima di quegli anni fosse molto più acceso di quello attuale: l’atmosfera soffocante e quasi invivibile era quotidianamente palese. Tuttavia, come ho accennato, i focolai esistono e sono alimentati da altri paragoni ancora meno insensati: c’è tutta una produzione di libri, riviste, video, podcast, siti internet, persino film, che vuole rappresentare Meloni e il suo partito come una nuova versione del fascismo storico quasi più pericolosa della precedente e in attesa di mettere in atto una “svolta autoritaria” reprimendo le opposizioni e instaurando censure. Questa autentica nevrosi – alimentata da libelli grossolani, faziosi e disinformati – contribuisce alla crescita dell’odio in ampie frange della sinistra. E odio chiama odio».
Nella destra italiana assistiamo alla contesa di certi temi: da una parte la premier Meloni, e dall’altra la Lega di Vannacci-Salvini sembrano contendersi l’elettorato di “destra-destra”, quell’elettorato che Meloni aveva in pugno ma che potrebbe perdere dopo la sua svolta “moderata”. Vede delle differenze significative tra queste due espressioni della destra italiana? Quali?
«Ci sono più differenze di stile comunicativo che di sostanza. Vannacci dice ad alta voce, e ha scritto nero su bianco, cose che una parte significativa dell’elettorato di destra, e una più ridotta di quello di centrodestra, pensano, soprattutto su temi come l’immigrazione e le rivendicazioni Lgbtq+. È ovvio che, per la posizione che occupa, la leader di FdI non possa più utilizzare il linguaggio che le era stato tanto utile negli anni dell’opposizione. E su un certo numero di argomenti, primo fra i quali l’Unione europea, il suo è stato un vero e proprio voltafaccia, che può alimentare malumori e servire alla Lega per cercare di strapparle qualche consenso. Ma ci sono contraddizioni insanabili anche sul versante leghista, che ostacolano questa prospettiva: se Salvini può attrarre certi elettori facendo capire di non condividere l’oltranzismo filo-Nato e anti-Russia di Meloni, di sicuro molti di questi li allontana, o addirittura li disgusta, quando si schiera dalla parte di Netanyahu e approva la sua politica di massacri. Molti degli elettori di sentimenti populisti che avevano votato Lega alle europee del 2019, e in precedenza M5S, oggi si rifugiano nell’astensione».
Dicevamo della “svolta moderata” di Meloni, che ha avuto un’espressione emblematica nel discorso di Rimini dello scorso 27 agosto. In quell’occasione la premier si è riferita esplicitamente al ceto medio e ha corredato il suo intervento con citazioni di Maritain, don Giussani, Papa Wojtyla. È vero che era il meeting di Cl, ma non c’è qualcosa di più in questo riferimento così insistito alla tradizione cattolica?
«C’è la consapevolezza, e la considerazione interessata, che l’Italia è un paese che ha concesso per quasi mezzo secolo una maggioranza elettorale alla Democrazia Cristiana e, malgrado tutti gli sconvolgimenti del sistema politico da Tangentopoli in poi, alberga ancora una consistente area di moderati, che sognano la rinascita di un Centro cruciale negli equilibri politici del paese. Berlusconi è stato il primo a cercare di sedurre quest’area di opinione e portarla dalla sua parte. Prodi e Renzi hanno fatto lo stesso tentativo sul versante opposto. Adesso è il turno di Meloni di provarci. Il suo richiamo alla tradizione cattolica serve solo a questo».