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Europa, una civiltà in lotta con se stessa

Che cosa c’è di più facile, immediato e quindi scontato che parlare dell’Europa rifacendosi ad Atene come culla della democrazia o a Roma come antica patria del diritto? Insomma, la tentazione di scrivere dell’Europa richiamandone in qualche modo le radici è forte. Ma la metafora delle radici ha due problemi: il primo è quello di implicare una dipendenza dal passato.


Se l’Europa di oggi è nient’altro che il frutto di un albero le cui radici affondano in Atene, Gerusalemme e Roma, allora il rapporto tra il frutto e le radici è un rapporto di piena dipendenza. Si è parte di quell’albero, piaccia o non piaccia. A lungo andare, il costante richiamo alle radici mortifica però l’iniziativa e castra la libertà; impedisce di essere qualcosa di diverso rispetto a ciò che si è stati, vincola l’identità attuale a quella passata.
Forse allora, come suggerito da importanti studiosi, dovremmo appellarci a metafore diverse. Forse dovremmo parlare dell’Europa di oggi come di un affluente di quel fiume principale che è la storia europea. In questo modo dovremmo sì riconoscere un legame con il passato, ma potremmo altresì ritagliarci uno spazio di autonomia. I fiumi si affiancano, ma ognuno ha il suo proprio flusso. Senonché il secondo limite della metafora arboricola è quello, appunto, di essere una metafora. E le metafore – quella del fiume non meno di quella delle radici – hanno il difetto di dire sempre molto più e molto meno di quello che vorrebbero dire. Non sarà che questa necessità di pensare per immagini sia a sua volta una specificità europea? Ma del resto, questa esigenza di trovare una specificità, una differenza ultima – una teleutaía diaphorà, avrebbe detto Aristotele – un tratto ultimo e distintivo, un’identità, un sostrato, non è forse a sua volta un tratto tipico del pensiero europeo? Insomma, non ne usciamo. Le domande che ci poniamo sono tutte, troppo europee.


Europee sono le categorie che orientano il nostro pensiero, europeo è il corredo concettuale che muove le nostre menti. Ecco perché definire l’Europa è non solo difficile, ma impossibile: ogni definizione richiede una presa di distanza, lo sguardo esterno di chi definisce rispetto a ciò che è oggetto di definizione. Impresa vana, cercare di uscire dall’Europa, rispetto alla quale il tentativo di quel tal barone che pretendeva di liberarsi dalle sabbie mobili sollevandosi per i capelli sembra cosa fattibilissima. Con buona pace di chi crede che basti un volo transatlantico per farlo, dall’Europa non usciamo mai.

Ma l’Europa è solo questo? Nient’altro che categorie, concetti, forme? E da dove le guerre, quelle di oggi e quelle di ieri, comprese quelle due guerre mondiali di cui più di uno storico ha parlato come di un’unica tremenda guerra civile europea? Da dove questo pathos del conflitto? Forse proprio in quelle categorie concettuali dalle quale abbiamo detto di non poter uscire? O forse il conflitto è tale perché quelle forme non sono in grado di contenere tutto, perché falliscono nel tentativo di “informare” il flusso vitale che pretendono di contenere?
Il pensiero greco e il diritto romano, le religione ebraica e quella cristiana, le “radici” da cui siamo partiti, sono forme elaborate proprio per contenere l’immane potenza del negativo, il fondo oscuro della vita che alla forma non cessa di contrapporsi. Di nuovo siamo rigettati alle origini, alle Eumenidi di Eschilo, quando Atena interrompe il ciclo del sangue in cui lo sventurato Oreste si era trovato coinvolto. Le Erinni lo perseguitano in quanto omicida della madre Clitennestra, che a sua volta aveva assassinato con l’inganno il marito, il re Agamennone. Cosa è più grave? L’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra o la vendetta di Oreste contro la madre? Da una parte i legami parentali, la natura, violati da Oreste, dall’altra il diritto e la regalità infranti da Clitennestra. Da un lato l’inviolabilità del rapporto di sangue, fatta valere dalle Erinni, divinità ctonie e terrene, dall’altra la sacralità della forma regale. L’“assoluzione” di Oreste stabilita da Atena, divinità olimpica e custode della polis, è l’atto di nascita dell’Europa. La coscienza europea nasce così, con la comprensione del fatto che alla natura può essere messo un freno, si può dire di no. Così la forma si impone sulla vita, e così vengono rese possibili la scienza, la filosofia, il diritto.


Di tanto in tanto, nella storia di quello che dopo essere stato Europa è diventato Occidente e che oggi è l’intero globo, la natura torna a reclamare le sue ragioni.


Ciò a cui assistiamo da almeno un secolo è lo sfaldarsi di quelle forme su cui la civiltà europea si era retta, lo sradicarsi dalle sue radici. Non si tratta ora né di voler riagganciare quelle radici al suolo né di formulare giudizi di valore: si tratta piuttosto di riconoscere l’avvenuto sradicamento e di prenderne atto. Nuove Erinni minacciano il Vecchio continente, nuove forme richiedono di essere portate alla luce.

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