Un padre stringe il giornale sotto il braccio, scende la scala con passo lento, apre il portone sul gelo di Mosca. Al chiosco, tra semi di girasole e batterie senza marca, la prima pagina del giornale parla di “avanzamenti” e “imprese eroiche”, mentre lui pensa all’ultima lettera di suo figlio dal fronte. Dentro il minimarket pane di segale, latte siberiano, succhi kazaki, birre baltiche rimarchiate, telefoni cinesi a rate. I cartellini oscillano per l’inflazione; le cassiere sorridono con stanchezza; alla cassa, dopo l’uscita di Visa e Mastercard nel 2022, i pagamenti domestici passano in larga parte su Mir.
È qui che la Russia di oggi si misura: vita quotidiana che si adatta, un’economia di guerra che mantiene il motore acceso, un potere che occupa l’aria come un odore persistente. “La bellezza salverà il mondo”, fa dire Dostoevskij al principe Myškin: in queste strade la bellezza lotta, non è ornamento. Il freddo dà il tempo. L’energia è la grammatica del potere: gas riorientato verso est, petrolio che viaggia con sconti e scali più lunghi, Gnl (Gas Naturale Liquefatto) artico che scivola tra Atlantico e Asia. Le entrate di bilancio dipendono ancora in prevalenza dagli idrocarburi, mentre la spesa militare occupa circa il 7,2% del Pil e 15,5 trilioni di rubli.
La Banca di Russia a luglio ha portato il tasso al 18% per raffreddare i prezzi, sacrificando investimenti civili e mutui. Nel frattempo i salari nominali crescono in rubli, trainati dai premi dell’industria bellica e della cantieristica, ma il carrello della spesa mangia una parte degli aumenti. La demografia fa il resto: nascite in calo, aspettativa di vita in lenta risalita, emigrazione qualificata che svuota uffici e laboratori. La crescita fa Pil, non futuro.
La scenografia politica non cambia il copione. Elezioni senza concorrenza reale, media allineati, opposizione in carcere o all’estero. Alexei Navalny è morto in una colonia artica nel 2024; il suo nome è diventato un’unità di misura del costo del dissenso. Le uccisioni di giornalisti, Anna Politkovskaja ma non solo, e attivisti negli anni della Cecenia restano come pietre tombali della memoria civile. Il corpo di Lenin, anche se da luglio scorso il Mausoleo è chiuso per restauro, continua a essere una didascalia del Novecento nel cuore del XXI secolo: la liturgia non si archivia. Lo stalinismo non torna come ideologia, ma come metodo amministrativo: leggi elastiche, delazione incentivata, tribunali che trasformano il dissenso in reato, un lessico di “guerra patriottica” a scuola e in tv.
Eppure la Russia non è solo il suo regime. Cechov, Tolstoj, Pasternak, Achmatova, Tarkovskij sono un patrimonio che nessun Cremlino può intestarsi. Vietare un balletto o cancellare un ciclo su Dostoevskij perché “russo” è un errore che confonde un popolo con il potere: la cultura è la linea di dialogo mentre i governi si fronteggiano. “Non c’è grandezza dove non c’è semplicità, bontà e verità”, scrive Tolstoj: un promemoria alla nostra stessa tentazione di scomunica.
L’altra metà del viaggio si chiama Ucraina, perché da lì passa il discrimine. L’invasione russa del 2022 è una violenza senza legittimità giuridica e morale. Il Donbass, conteso dal 2014, è l’officina della guerra moderna: artiglieria, droni, avanzate di chilometri al prezzo di migliaia di vite, stazioni elettriche riparate e colpite di nuovo, ferrovie che riprendono a correre in notti senza luce. Kiev governa sotto legge marziale; la Costituzione impedisce elezioni durante la guerra. La democrazia è compressa per sopravvivenza: nella programmazione unificata che dal 2022 accorpa i principali canali in un unico notiziario 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana, riducendo la pluralità in nome dell’emergenza bellica; con i partiti accusati di collaborazionismo messi fuori legge; nelle procure anticorruzione, che combattono oligarchie e reti clientelari. Non è un alibi per Mosca: è la difficoltà di una democrazia che combatte.
La spesa militare ha costituito il 34% del Pil nel 2024, la più alta al mondo; il grano esce per corridoi Danubio-Mar Nero, quando la marina russa lascia varchi; i negoziati di adesione all’Unione Europea sono avviati con capitoli che chiedono riforme giudiziarie, amministrative, ambientali. Milioni di rifugiati e sfollati ridisegnano l’Europa; l’Ucraina prova a immaginarsi più piccola e più efficiente, agganciata alla rete elettrica continentale, con capitali che entrano se le regole si consolidano.
Intorno, l’ex spazio sovietico non è un coro, è un’orchestra dissonante. La Bielorussia è l’alleato totale: unione statale che diventa cinghia militare, testate nucleari tattiche sul proprio territorio, potassio per fertilizzanti come rendita chiave, sanzioni come prezzo da pagare. L’urbanistica di Minsk sembra congelata al 1983, ma i terminali digitali sono nuovi; gli stipendi pubblici si reggono su sussidi russi, la repressione riempie carceri e liste nere. Più a est comincia l’arte dell’equilibrio: il Kazakistan non riconosce le annessioni russe in Ucraina, resta dentro l’Unione economica eurasiatica, ricalcola i corridoi ferroviari lungo il Caspio verso il Caucaso, cresce con petrolio e metalli e attrae investimenti cinesi ed europei. Il suo Pil ha superato i 250 miliardi di dollari; i salari reali tengono grazie alla rendita, la dipendenza da poche commodity resta un rischio calcolato.
L’Uzbekistan corre con un’economia vicino al 6% di crescita annua: privatizzazioni selettive, manifattura leggera, agricoltura modernizzata, rimesse che valgono oltre il 10% del Pil; la politica è personalistica, la neutralità rigidamente ribadita. Kirghizistan e Tagikistan vivono di rimesse che oggi valgono tra il 45 e il 50% in Tagikistan e intorno al 20% in Kirghizistan: diaspore che reggono famiglie e bilanci, confini porosi, idroelettrico come speranza industriale.
Il Caucaso si è spostato. L’Armenia, ferita dall’esodo dal Nagorno-Karabakh, ha congelato di fatto la cooperazione militare con Mosca e guarda a Parigi, Bruxelles e Washington. La crescita recente è arrivata dai professionisti russi che hanno riempito coworking e ristoranti di Erevan, ma la sicurezza resta l’angoscia quotidiana. L’Azerbaigian vende gas all’Europa lungo il Corridoio meridionale, consolidando un profilo autonomo: più Ankara che Mosca, più pipeline che ideologia. La Georgia è sospesa: società pro Ue, governo che gioca con leggi sugli “agenti stranieri”, economia di turismo e transito, territori occupati, Abkhazia e Ossezia del Sud, come ferite aperte.
A nord-ovest i Baltici hanno fatto del ricordo una politica. Difesa ben sopra il 2% del Pil, aiuti all’Ucraina altissimi in rapporto all’economia, sincronizzazione elettrica con l’Europa continentale, disconnessione dal vecchio anello ex sovietico: tecnicismi che raccontano una scelta irreversibile. La Moldavia, povera e determinata, ha agganciato la propria rete alla Romania, ha avviato i negoziati di adesione e convive con la Transnistria come con una scheggia di vetro nella scarpa.
La mappa dell’area passa a Mosca anche dal gusto: aringa a strati viola di barbabietola, Olivier cremosa, borsc che a Kiev è bandiera prima che zuppa, kefir freddo e, nei giorni buoni, un’ombra di caviale, insieme al formaggio georgiano che fila nel khachapuri, vino ambrato. Non è “cucina straniera”: è il menù comune ereditato dall’ex impero. Nelle metropoli circolano birre locali ed ex marchi occidentali rimarchiati; le librerie indipendenti espongono Cechov e Platonov accanto ad autori contemporanei che parlano di periferie, coscrizioni, amori e migrazioni; i teatri provano a non farsi ingabbiare dalla retorica patriottica con allegorie e silenzi. I giovani studiano su smartphone cinesi, aprono negozi online su Wildberries e Ozon, usano Vpn per i social occidentali, suonano techno e chanson nello stesso club. La socialità resiste, ma si abbassa di tono: brindisi più brevi, chat più criptate, viaggi orientati più verso Turchia ed Emirati che a Berlino.
Nella fabbrica del potere, il rapporto con la Cina è un asse, non un matrimonio d’amore. Il commercio bilaterale ha toccato livelli record con energia russa in cambio di auto, elettronica, macchinari; i pagamenti in yuan e rubli riducono il dollaro ma aumentano la dipendenza. La grande arteria del gas “siberiano” verso Pechino procede a colpi di negoziato su prezzi e volumi; intanto l’India compra greggio scontato e rivende prodotti raffinati al mondo, e la Turchia si comporta come una cerniera doganale più che come un alleato. È un pragmatismo che lascia Mosca forte negli idrocarburi e più debole sul resto: la sostituzione delle importazioni funziona sulle lavatrici, molto meno sui chip.
La guerra produce anche una cartografia culturale. Registi e musicisti russi critici lavorano in esilio, soprattutto nelle capitali baltiche, a Berlino, a Tbilisi; case editrici ucraine pubblicano romanzi che diventano documenti; festival europei imparano a programmare Cajkovskij senza per questo arretrare di un passo sul giudizio politico. È qui che la distinzione tra popoli e regimi smette di essere un esercizio accademico e diventa criterio operativo: sostenere Kiev e, nello stesso tempo, rifiutare la cancellazione della cultura russa. La maturità sta in questo doppio movimento.
Sul fronte occidentale la simpatia per il cremlinismo sopravvive in nicchie rumorose: il decisionismo seduce, l’idea di sovranità “senza lacci” piace alle destre e alle sinistre identitarie. Ma la maggioranza delle opinioni pubbliche europee si è spostata: la Russia è percepita come minaccia e l’Ucraina come vittima da sostenere. L’Europa ha fatto in due anni quello che non aveva fatto in decenni: rimpiazzare il gas russo, alzare la spesa militare, ricostruire filiere di munizioni, coordinare sanzioni su finanza, logistica e tecnologia. I risultati non sono perfetti, ma hanno alzato il costo della guerra per Mosca e dato a Kiev tempo e ossigeno. Nelle ex repubbliche, intanto, la materia vince sull’ideologia. Oleodotti e cavi determinano più dei manifesti. Il “medio corridoio” caucasico mette in riga porti, ferrovie, dogane; le rimesse kirghise e tagike contano più dei proclami; i salari ucraini del settore IT in fuga sostengono affitti a Varsavia e Berlino; i conti kazaki sono la prova che si può negoziare con tutti senza essere di nessuno; i supermercati russi raccontano che l’import parallelo ha un limite: si sostituiscono le etichette, non sempre la qualità.
Se questo viaggio ha una morale, è nella sovrapposizione di tre piani che non si separano mai: materia, potere, immaginario. La materia sono i salari, i prezzi, le rotte energetiche, le rimesse, i tassi, i camion in dogana. Il potere sono le leggi che restringono, le elezioni che rappresentano senza contendere, la legge marziale che difende e comprime, le scelte di Minsk, Astana, Tbilisi, Erevan, Baku, Chisinau. L’immaginario sono i libri, i film, i cori, i meme, le liturgie religiose, l’idea di “mondo russo” usata dal Patriarcato per benedire una guerra e la risposta ucraina che costruisce un canone con cui farsi riconoscere in Europa. Nessuno di questi tre piani domina gli altri: si intrecciano come trame e orditi.
Il padre esce dal minimarket con il giornale ancora sotto il braccio. A casa lo posa vicino a una copia sgualcita di Guerra e pace. Suo figlio lo chiama dal servizio: la linea salta, poi torna, poi si spegne. Dall’altra parte, in una cucina di Dnipro, una studentessa spegne il generatore e accende il fornello; a Erevan un programmatore russo invia la fattura a un cliente di San Pietroburgo; a Vilnius un tecnico controlla una sala di rete che pulsa alla frequenza europea; ad Almaty un dispatcher assegna container sul corridoio transcaspico; a Tbilisi un’attrice prova Cechov con una regia che lo colloca nel presente. La regione post-sovietica è questa: mani che saldano e mani che scrivono, gru e archivi, bollette e partiture. Si può amare Cechov e difendere Kiev, detestare il cremlinismo e rispettare la memoria sovietica che ha educato generazioni, mangiare borsch e leggere Achmatova, senza confondere mai la cultura con il potere.Resta un soffitto d’acciaio tutto post-sovietico. L’arsenale nucleare dell’Urss è oggi concentrato in Russia; Ucraina, Kazakistan e Bielorussia lo trasferirono a Mosca negli anni Novanta, ma dal 2023 testate tattiche russe sono dislocate proprio in Bielorussia. In Asia centrale sopravvive la cicatrice di Semipalatinsk; nel Baltico e nel Caucaso il calcolo quotidiano include la vicinanza a Kaliningrad e alle basi russe. È sotto quel soffitto che si decide: chiamiamo la guerra per nome e sosteniamo Kiev; intanto custodiamo i classici russi come patrimonio del mondo e come ponte, non come attenuante. La cultura non assolve l’imperialismo, ma è forse, oggi, l’unico filo che ancora collega l’Occidente a Mosca, finché la politica non saprà ricucire un rapporto di pace con quella che rimane una culla della civiltà mondiale.
Russia ed ex Repubbliche sovietiche, là dove i missili non cancellano Cechov
