Sono passate ben più di due settimane dal vertice bilaterale che il 15 agosto scorso ha visto seduti allo stesso tavolo ad Anchorage, Alaska, Vladimir Putin e Donald Trump. Quando quell’incontro era stato annunciato si era pensato al miracolo diplomatico: il leader della Federazione russa, quello che in Occidente viene descritto come un macellaio e un tiranno assetato di sangue ucraino, al cospetto dell’uomo più importante del Pianeta. La stampa si era sbizzarrita per giorni, immaginando che questo evento avrebbe segnato la svolta decisiva di un conflitto che, ogni giorno che passa, si avvicina al suo quarto anno. E magari, chissà, avrebbe fornito il pretesto per la risoluzione di altri scenari di guerra. Promesse di cessate il fuoco, prospettive di accordi, l’auspicio di Trump di ricevere la stessa ospitalità a Mosca, grandi strette di mano, dichiarazioni di intenti…
Dopo una settimana ogni prospettiva era ormai pressocché disattesa. L’inquilino della Casa Bianca aveva rilasciato dichiarazioni confuse che riguardavano un nuovo potenziale incontro, questa volta alla presenza di Volodymyr Zelensky, nell’arco delle due settimane successive. Niente di tutto ciò è avvenuto. Anzi, probabilmente intuendo che Zelensky e Putin non si sarebbero mai seduti allo stesso tavolo, il tycoon ha giocato una manovra un po’ sporca e si è defilato da ogni eventualità di incontro e ha detto: «Devono sbrigarsela loro».
La sua maschera di arbitro del mondo non regge al confronto con l’evidenza dei fatti. Intanto, domani ci sarà a Parigi il summit dei Volenterosi, a cui parteciperà anche Zelensky, dove si delineerà un piano articolato per fornire all’Ucraina le garanzie di sicurezza, che include anche la possibilità dei «boots on the ground», ossia un supporto strategico di terra. L’ultimatum di Trump non ha lasciato alcuno strascico e la posizione dell’Ue non è cambiata di una virgola: «Putin continua a dimostrare di non volere la pace».
Von der Leyen: «C’è un piano preciso per l’Ucraina»
È in questo contesto che Ursula von der Leyen, parlando al Financial Times, domenica ha smosso le acque affermando che «c’è un piano piuttosto preciso» sull’Ucraina. Parole, le sue, che non sono piaciute a tutti, innanzitutto a Berlino. Dopo la frenata del cancelliere Fredrich Merz sull’invio di truppe, è stato il ministro della Difesa Boris Pistorius a entrare a gamba tesa: «La Von der Leyen», ha spiegato, «non ha voce in capitolo per parlare di truppe. Sulle garanzie di sicurezza il dibattito è totalmente sbagliato». La decisione politica, infatti, spetta ai singoli Stati membri. E ci sono capitali, come ad esempio Roma, che hanno già reiterato il diniego a inviare fanteria militare sul suolo ucraino.
Parallelamente ai Volenterosi, l’Unione europea sta ultimando la sua tabella di marcia su difesa e sostegno a Kiev. I due temi sono legati e il piano della Commissione, oltre all’uso di Safe, prevede anche un più ampio utilizzo degli asset russi congelati e la messa a punto di un diciannovesimo pacchetto di sanzioni. «Le misure europee contro la Russia stanno funzionando, Mosca chiede continuamente la loro revoca», ha spiegato Von der Leyen ai cronisti, ai quali ha preannunciato una ulteriore accelerazione sui progetti della difesa comuni finanziati da Safe. Sono 19 (inclusa l’Italia) i Paesi che hanno chiesto l’attivazione dello Strumento attraverso il quale Bruxelles vuole sviluppare un embrione di difesa comune e, al tempo stesso, organizzare un sostegno militare a lungo termine per l’Ucraina.
Il vertice anti-Occidente in Cina
Nel frattempo, il resto del mondo si è riunito in Cina per quattro giorni per partecipare al venticinquesimo vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), in cui si ridefiniscono nuovi assetti del Grande Gioco: si riscoprono vecchie amicizie, si sopiscono certi rancori, il tutto con il denominatore comune dei difficili rapporti con gli Stati Uniti. Modi è arrivato a Tianjin, nel suo primo viaggio in Cina da sette anni, segnando un disgelo nei legami tra Pechino e Nuova Delhi, dopo lo scontro di confine del 2020 costato oltre 70 vittime. Storicamente, cinesi e indiani non vanno molto d’accordo, ma al momento entrambi i Paesi godono di ottimi vantaggi commerciali con la Russia.
Putin e Modi si sono incontrati lunedì, durante il loro primo faccia a faccia dall’introduzione da parte di Washington di un dazio del 50% sulle esportazioni indiane in risposta agli acquisti di greggio russo, che l’India rivendica nel quadro della propria sovranità. Anche in questo aspetto si rileva la poca lungimiranza strategica di Trump, che vorrebbe sedurre l’india in chiave anticinese, ma la punisce imponendoli pesanti gabelle fiscali perché Nuova Delhi compra petrolio russo a costi vantaggiosi.