Il 2 settembre del 2015, il corpicino di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, diventò il drammatico simbolo della crisi migratoria. Abbiamo chiesto a Stefano Allievi, professore di sociologia all’università di Padova ed esperto di politiche migratorie, a che punto siamo oggi dopo dieci anni. «La situazione è peggiorata. Quell’immagine convinse Angela Merkel ad aprire la Germania a un milione e mezzo di persone: furono accolte dai tedeschi alle stazioni con cibo, vestiti e giocattoli. Oggi una scena del genere è impensabile».
«Chi scappa dalla sua casa non ha quasi mai altra scelta», disse allora Tima Kurdi, la zia di Alan. È ancora così?
«Sì. Chi affronta questo percorso sa che cosa rischia e non pensa di avere alternative. E non serve una minaccia drammatica, una persecuzione o una carestia: basta non avere grandi aspettative.»
L’integrazione dei turchi in Germania è stata un successo?
«Sì. La Germania ha recuperato sul piano economico e demografico ciò che ha investito. Gli immigrati di allora si sono integrati bene. Dopodiché con l’aumento dell’immigrazione aumenta anche il rifiuto dell’immigrazione. Oggi il vento va in direzione diversa dall’integrazione. Quell’esperienza non è ripetibile.»
Nel Regno Unito Nigel Farage chiede la deportazione degli stranieri. In Germania l’Afd promette la “remigrazione” degli immigrati, anche regolari. Un filo rosso unisce i populismi europei: perché?
«Le persone diverse aumentano e diventano più visibili. Poi c’è il meccanismo del capro espiatorio che, come fu per la Brexit, ritorna con risultati devastanti. In Inghilterra i ceti impoveriti trovano negli immigrati un nuovo obiettivo. Il caso britannico è clamoroso: un governo laburista che attua politiche di respingimento e non riesce a costruire una narrazione e una metodologia di gestione.»
Che cosa si dovrebbe fare?
«Come per tutte le cose: se non le governi producono caos. Invece prevale il rifiuto degli immigrati: non me ne occupo perché voglio che vadano via. Manca una proposta di governo. Ma le migrazioni sono la fisiologia della storia umana. Siamo una specie nomade: 50 milioni di europei sono andati via dall’Europa tra ‘800 e ‘900.»
La deportazione degli irregolari da rimpatriare – in Ruanda, nel caso inglese, o in Albania, nel caso italiano – è una soluzione?
«Sono dei palliativi costosissimi. Le politiche di respingimento costano più dell’integrazione. Sarebbe meglio fare accordi con i paesi di origine, non per sparare ma per gestire le fila. Anche perché l’Italia ha un fabbisogno superiore agli arrivi.»
A che cosa si riferisce?
«Viviamo una transizione demografica dai primi anni ’90. Ogni anno vanno in pensione più persone di quante ne entrano nel mercato del lavoro. Un dato drammatico: non ci sono i giovani. Come fai a non averlo in mente? Oltre al bracciantato e alle badanti, nei servizi, nelle Rsa, negli uffici, nelle pulizie e in altri mestieri c’è un enorme fabbisogno che resta scoperto. Anche se i salari fossero più alti. Da noi si aggiunge pure l’emigrazione degli italiani, destinata ad aumentare: un paese così è un paese in declino. Viviamo in un gerontocomio: le innovazioni non vengono dagli anziani.»
Che cosa bisogna fare?
«Invece di pagare i paesi di partenza per sparare sui migranti che si imbarcano, dovremmo riaprire i canali regolari e far venire quelli giusti. Così arrivano solo quelli che non sono alfabetizzati: ci mettono un anno e mezzo per venire e arrivano devastati.»
E invece questo governo che fa?
«Non rimborsa più i comuni e non spende più per l’insegnamento dell’italiano. Non paghiamo la scuola – che è un investimento, non un costo – però li vogliamo formati. Questo fa rabbia, ma non se ne parla. Se facciamo mera accoglienza e non spendiamo niente per l’integrazione, otteniamo la disintegrazione. Purtroppo se chiedi ai leader progressisti di parlare dell’argomento preferiscono evitare per non perdere voti. Ma se se ne parlasse seriamente con proposte ragionate, ci sarebbe margine per far capire le cose. Sono sicuro che l’elettorato comprenderebbe.»
Qualche esempio di “proposta ragionata”?
«Primo: canali regolari e controllati d’ingresso. Hanno vantaggi enormi. Offriamo permessi regolari di due anni per la ricerca del lavoro, non perché il lavoro ce l’hanno già. Questa misura permetterebbe di combattere l’irregolarità e diminuirebbe i finti richiedenti asilo, un fenomeno che abbiamo creato noi.»
Poi?
«Politiche di integrazione vere: formazione professionale, conoscenza linguistica e culturale, in accordo con datori di lavoro e associazionismo. Si lamentano che non c’è formazione, ma nessuno la fa. Infine, serve puntare sui processi di contatto e rapporto già esistenti: la scuola e i matrimoni misti sono luoghi molto interessanti che mostrano nella pratica che la gente può convivere. Ricordo che un terzo dei bambini che frequentano gli oratori milanesi sono musulmani.»
Bisognerebbe anche allargare le maglie della cittadinanza per chi è in Italia da tempo?
«Certo che sì. Se un ragazzo immigrato che parla italiano con accento dialettale si sente dire che non è uguale non favoriamo la sua integrazione. C’è da stupirsi che non siano più arrabbiati. In passato, i governi di centrosinistra hanno perso un’occasione storica. In politica si vince in attacco: loro hanno avuto paura.»