E’ un segnale forte e inequivocabile quello lanciato da Tianjin, la grande megalopoli che funge sbocco portuale della capitale cinese Pechino. Qui si è chiuso nella giornata di ieri il 25esimo vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), un forum a guida cinese fondato sulla cooperazione geopolitica tra i Paesi in via di sviluppo che negli anni ha assunto un profilo sempre più “alternativo” rispetto alle alleanze a matrice occidentale.
Nella Dichiarazione di Tianjin, il blocco anti-occidentale ha ribadito il sostegno al «rispetto reciproco per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale degli Stati, l’uguaglianza, il mutuo vantaggio, la non ingerenza negli affari interni e la non minaccia o uso della forza», parole chiave con cui il mondo non allineato agli assiomi occidentali da tempo chiede un rapporto più paritario.
Ad oggi la Sco riunisce 10 Paesi membri – Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan (i cosiddetti “5 Stan”), più vari osservatori tra cui Turchia ed Egitto – coprendo circa il 40% della popolazione mondiale e un terzo del Pil planetario. A differenza della Nato, non prevede clausole di difesa collettiva e si propone invece come piattaforma di cooperazione politica, economica e di sicurezza, ma la sua vocazione è sempre stata quella di dare rappresentazione e voce di quella grande fetta di mondo esclusa dai caminetti occidentali.
«Il grande Sud globale non è più la maggioranza silenziosa» del mondo, ha scandito il ministro degli Esteri cinese accogliendo i leader stranieri in visita, tra i quali si annoverano il premier indiano Narendra Modi, il dittatore nordcoreano Kim Jong un, il presidente iraniano Mamoud Pezeshkian, il suo collega turco Recep Tayyip Erdogan e – naturalmente – il presidente russo Vladimir Putin.
Una passerella per Putin
Accolto con tutti gli onori, lo Zar ha potuto mostrare ancora una volta al mondo di non essere né solo né tanto meno isolato, dopo il fallimentare incontro con Donald Trump in Alaska nello scorso agosto. A differenza degli altri leader, il presidente russo si tratterrà in Cina per l’intera settimana durante la quale svolgerà consultazioni di alto livello con i propri partner cinesi e assisterà alla parata militare del 3 settembre a Pechino, in occasione dell’80esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale.
Per il momento il capo del Cremlino afferma di essere d’accordo con la proposta di Xi di creare «un nuovo e più efficace sistema di governance globale». I colloqui in realtà sono iniziati già a margine del summit, dove Putin ha avuto bilaterali con Erdogan e Pezeshkian e – soprattutto – un inedito incontro trilaterale con il padrone di casa Xi Jinping e Modi.
L’uomo forte di Nuova Delhi è stato uno dei leader più attenzionati, dal momento che la sua partecipazione – dopo sette anni in cui non aveva mai messo piede in Cina – è stata letta come una risposta alla guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti contro l’India nel tentativo di bloccare gli acquisti di petrolio russo da parte dell’affamata economia indiana. Tentativi rispediti al mittente da Modi, che ha invece lodato gli sforzi dei leader presenti per costruire un nuovo ordine mondiale. La Cina in questo si è proposta con grande chiarezza come protagonista di questa ipotetica svolta.
Xi cementà la sua rilevanza nel “pantheon” della Repubblica
Non è un caso se le colonne del Quotidiano del popolo, l’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista cinese, hanno ospitato proprio in corrispondenza del vertice un articolo di Lu Xuelian, professore dell’Università di Jilin, sulla «Nuova teoria della sicurezza di Xi Jinping». Una mossa che segnala la centralità del «Pensiero di Xi Jinping», ormai entrato da tempo nel pantheon ideologico ufficiale della Repubblica popolare cinese insieme a quello del suo fondatore, Mao Tse-tsung, ma anche il desiderio di Pechino di proporre una nuova visione globale alternativa a quella a guida americana.
Obiettivo: scardinare la concezione occidentale di un sistema internazionale fondato sulla sicurezza dei singoli Stati per spostarla – molto opportunamente – su quella del sistema nel suo complesso. Rifiutando quindi la corsa agli armamenti e le alleanze ad excludendum, da ricondurre invece a quella «mentalità da Guerra fredda» rinfacciata a Washington, per guardare a una non meglio definita «integrazione sistemica» da attuare secondo logiche proprie della «governance globale». Tradotto: la sicurezza non è un fatto riguardante in maniera unilaterale il Paese interessato ma tutta la comunità internazionale nel suo complesso, a cui spetterebbe dunque il compito di negoziare l’eventuale assetto secondo gli interessi generali complessivi.
Una definizione che si sposa con l’approccio cinese alla crisi ucraina, per esempio, dove Pechino si offre come intermediatrice e forza di pace sul campo ma solo a patto di subordinare gli interessi particolari ucraini (riconquistare il Donbas e sconfiggere la Russia) a quelli della comunità internazionale (porre fine al conflitto e reintegrare la Russia negli scambi globali, anche a costo di scendere a patti con Mosca). Ma il riferimento all’integrazione sistemica non ha una valenza soltanto politica e diplomatica, bensì economica.
L’economia, punto di contatto con Washington
Nonostante infatti i reciprochi tentativi di escludersi a vicenda dalla globalizzazione, Cina e Stati Uniti mantengono forti e consistenti legami commerciali ineludibili. E’ il caso, per esempio, dell’accordo “chips per minerali critici”, l’intesa – informale e provvisoria – che al momento vede Pechino autorizzare l’esportazione di una serie di materie prime fondamentali per l’industria high tech americana, dai microprocessori all’elettronica di base, in cambio della continua esportazione di microchip ad alta definizione prodotti dalle aziende americane per i propri clienti industriali cinesi.
Certo, Washington ha moltiplicato i propri sforzi per cercare fonti di approvvigionamento alternative al Dragone e Pechino è ormai in grado di produrre prodotti ad alta tecnologia capaci di fare la concorrenza a quelli statunitensi, ma entrambe non riescono (ancora) a raggiungere lo stesso livello di “qualità-quantità” dell’avversario.
Costringendosi così a una surreale convivenza di fatto, per il bene dei propri filoni strategici senza i quali – e qua sta tutto il paradosso – la sfida sino-americana per il dominio dell’ordine mondiale sarebbe già persa. Ma è un paradosso che nasconde una postura ben precisa: la Cina non vuole distruggere l’ordine internazionale, bensì desidera guidarlo; non vuole abbattere la “catena alimentare” della globalizzazione, bensì vuole risalirla per potersi mettersi a capotavola. Insomma, una rivoluzione in giacca e cravatta piuttosto che con la vecchia giubba alla Mao, ma non per questo meno insidiosa per l’attuale ordine internazionale.