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Fabbri: «Europa e Usa, due Occidenti»

«La dimensione imperiale non se ne era mai andata. Noi europei ci siamo raccontati la storia che il mondo era diviso tra buoni e cattivi e che noi siamo tra i buoni. Una volta eravamo noi i cattivi. Poi Stati Uniti e Unione Sovietica ci tolsero la possibilità di nuocere». Dario Fabbri, analista geopolitico, fondatore e direttore del mensile di geopolitica “Domino”, commenta così l’incontro di Anchorage tra Putin e Trump che per l’Economist rappresenta il ritorno della dimensione imperiale.

L’accoglienza di Putin sul tappeto rosso che cosa significa? Donald Trump ha ottenuto qualcosa da Vladimir Putin?

«I vertici tra leader sono scenografici ma i destini dell’umanità non si decidono lì. Queste sono semplificazioni. Dal summit è emerso il tentativo di seduzione degli Usa nei confronti della Russia. Gli Stati Uniti hanno in testa da 30 anni di aprire alla Russia. Ha cominciato Bush e poi ci ha provato Obama. Poi si sono scontrati con la realtà: la Russia è un soggetto difficilmente gestibile».

Qual è il motivo di questa attenzione speciale verso la Russia?

«Gli Stati Uniti hanno bisogno di staccare la Russia dalla Cina. Se hai due nemici principali li devi dividere. E per farlo punti sul più debole. Sul punto bisogna valutare anche il peso del deep state americano che ha proporzioni enormi rispetto alle nostre amministrazioni pubbliche. Basti pensare che solo il Pentagono impiega oltre tre milioni di dipendenti. Senza questi soggetti è difficile attuare la politica estera. In questo caso gli apparati sono parzialmente d’accordo con l’idea di aprire alla Russia. Da qui derivano anche le numerose storture di protocollo del summit in Alaska. In conferenza stampa Trump dice solo: “Vi faremo sapere”. E adesso viene la parte difficile: delineare un compromesso sull’Ucraina».

Compromesso sul quale i Paesi europei cercano di dire la loro. Come legge la missione dei “volenterosi” a Washington?

«La visita degli europei è commovente. Lo hanno fatto anche per non mandare Zelensky da solo visto che a febbraio non era stato accolto con i fiori. Ma il vero punto è un altro».

Quale?

«La garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti. Gli americani ci dicono cosa fare e noi lo facciamo. Invece, gli Usa che garanzie danno? Una risposta è nell’accordo già formulato tra Washington e Kyiv che consente lo sfruttamento del 50% delle risorse dell’Ucraina, a partire dalle terre rare. L’accordo prevede già che i lavoratori americani andranno nel Paese a estrarre le risorse locali. Ma non ci andranno con il golfino sulle spalle: saranno accompagnati dai contractors affiliati al Pentagono che sono, di fatto, la Wagner degli Stati Uniti. Chi li tocca, tocca l’America. Basterà questo?»

E gli europei che ruolo potranno avere nella sicurezza dell’Ucraina?

«Gli europei faranno comunque una manutenzione ancillare. Al massimo i peacekeepers. Ma sono questioni aleatorie: l’unica cosa seria fino ad oggi è l’accordo tra Washington e Kyiv sull’estrazione delle risorse garantita dai militari statunitensi».

Per garantire la sicurezza dell’Ucraina Giorgia Meloni propone da mesi l’adozione di un meccanismo di difesa che ricalca l’articolo 5 della Nato: quella norma che ammette l’opzione dell’intervento militare nel caso in cui un paese membro venga aggredito. È un’ipotesi realistica? Come si concilia con la mancanza di volontà di mandare truppe sul campo espressa finora dal governo italiano?

«È un proposito oltremodo coraggioso per l’Italia. Significa che se domani la Russia attacca di nuovo l’Ucraina, l’Italia deve intervenire per fare la guerra alla Russia. Per ora è anche meno che una proposta. Attenzione, però: gli americani non si faranno legare le mani dall’articolo 5. Non l’hanno mai voluto utilizzare, nemmeno nell’occasione dell’attacco alle Torri Gemelle quando Lord George Robertson, allora segretario generale dell’Alleanza Atlantica, offrì la disponibilità degli Stati membri di correre in soccorso dell’America colpita. Gli Usa risposero: grazie, no. Adottare quel meccanismo significherebbe in ogni caso che gli europei devono restare in allerta, pronti per entrare in guerra: ma la voglio proprio vedere».

Nel frattempo, Vladimir Putin non sembra fare passi indietro: i suoi obiettivi restano quelli dell’inizio del conflitto. È disponibile a un accordo o è tutta un’invenzione di Trump?

«È più o meno così. In Ucraina l’estate sta finendo e questo può facilitare un eventuale compromesso. Ma i russi pensano: quando ci ricapita? C’è una parte di bluff da parte russa, che si spiega anche con le condizioni climatiche e meteorologiche. E poi la Russia vive una situazione ambivalente. Ha vinto la guerra sul piano tattico perché, con crudeltà e violenza, sta guadagnando dei territori. Ma ha perso la guerra sul piano strategico. Putin voleva conquistare il Paese intero, rovesciare Zelensky e mettere al suo posto un governo fantoccio, allontanare l’Ucraina dall’Occidente. Viceversa, l’Ucraina resterà in orbita americana e occidentale».

Come si sta muovendo, dunque, il despota russo?

«Putin dice: “Gli americani ci vogliono sedurre, allora chiediamo qualcosa che ci consenta di tramutare una sconfitta strategica in una vittoria”. E chiede cose esose: l’adozione del russo come lingua ufficiale per l’intera Ucraina, un maggior potere per la chiesa ortodossa russa autocefala, l’annessione di tutto il Donbass anche se non lo ha conquistato completamente e nessun contingente dei Paesi della Nato sul territorio ucraino. Gli americani offrono qualcosa ma la Russia avanza richieste eccessive. Ciò rende possibile un accordo? Servirà un congelamento della situazione per avvicinare Mosca e Washington. Ma non penso che la questione ucraina si risolverà mai del tutto».

Sta delineando un modello coreano anche per l’Ucraina?

«Il modello coreano potrebbe essere un’ipotesi temporanea: lì non c’è un trattato di pace, la situazione è ferma a un armistizio frutto del conflitto tra americani (mascherati da onusiani) e cinesi. Ma negli anni temo che la soluzione della questione ucraina sarà più cruenta rispetto al caso della Corea».

Democrazie contro autocrazie: dopo la rielezione di Donald Trump, lo schema di Biden non funziona più. Dobbiamo abituarci a fare a meno dell’America?

«L’Europa non può fare a meno dell’America. Anche se volessimo non ce lo consentirebbero. I Paesi europei sono satelliti degli Stati Uniti: l’essere dipendenti non è una scelta, non è che prendi e te ne vai. I militari americani stanziati in Italia e in Germania non sono in vacanza. È sempre stato così, ora però gli americani ci dicono cosa fare con crudezza. Essere provincia dell’impero ha dei vantaggi: ci permette di vivere nella bambagia. Così possiamo porci domande nobilissime, tipo: “Come è possibile che esistano ancora le guerre?”. Ma le guerre non si sono mai fermate».

E l’Italia come si muove in questo contesto?

«Assieme alla Germania, l’Italia è forse il Paese europeo che ha più paura degli Stati Uniti. Mettiamo che l’Italia decida di avvicinarsi alla Cina e che la Cina si prenda un paio di porti. Gli americani non la prenderebbero bene e potrebbe finire davvero molto male. Detto questo, ci poteva andare molto peggio, invece nel rapporto con gli Usa ci è andata di lusso. Talmente tanto che ci siamo convinti che l’impero americano non esista».

Qual è dunque il futuro dell’Occidente?

«Esistono due “Occidenti”: uno siamo noi, l’Europa centro-occidentale, benestante, anziana e paurosa. E poi ci sono gli Stati Uniti che sono l’Occidente imperiale, quello che spara e che campa di potenza. Questa divaricazione ce la porteremo per un bel po’. Ricorda un po’ il rapporto tra greci e romani: noi li trattiamo come cafoni e loro ci trattano come dei poverini».

Fino al punto di renderci autonomi dall’altro Occidente?

«L’Europa non è uno stato, tantomeno una nazione: le nazioni sono fatte di sentimento e violenza, non è il caso dell’Europa e direi per fortuna. L’Europa è un insieme di Stati-nazione che non vanno d’accordo su moltissimi punti. Anche nella trattativa sui dazi tutti hanno cercato di agire separati e poi hanno dato la colpa all’Unione europea. L’Europa è ancora il continente più importante del mondo, ma non è uno Stato e dipende dall’America».

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