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Anni di guerra e odio ma per i due leader è tempo del faccia a faccia

L’istrice d’acciaio potrebbe essere un ideale punto d’arrivo, ma oggi nel menù offerto nell’incontro con Trump c’è un rospo, condito ed infiocchettato con inusuale grazia e garbo, ma che offre solo un’alternativa: o il bacio lo trasforma in una bella principessa della pace oppure va inghiottito, facendo buon viso a cattivo gioco. Sono maturi i tempi per un incontro Putin-Zelensky? Una domanda reale e scomoda.

Nel dialogo tra “sense and sensibility”, la sensibilità ci dice che dieci giorni sono assurdi contro 1.278 giorni di guerra, bombardamenti, morti, feriti, stupri, sevizie, massacri e crimini di guerra, odio personale e collettivo. Quando, con grande carità cristiana e visione politica, Papa Francesco fece portare la croce nella Via Crucis ad una donna russa ed ucraina (2022), si levarono ondate di livore indignato, cieco sull’umanità compartecipe e ben aperto sulle atrocità commesse e subite. Tanto a pagare il conto erano la carne ed il sangue degli ucraini in difesa, dei russi invasori e dei diversi “volontari” accorsi…

Sin dall’inizio, il rapporto tra i due dirigenti politici è stato pessimo in passato, perché Putin non aveva nessuna stima del comico catapultato sul seggio presidenziale del suo Paese. Come può un ex-keghebeshnik con 35 anni di mestiere parapolitico e politico, ispirato dalla gigantesca figura dello zar riformatore e occidentalista Pietro il Grande, considerare appena un interlocutore quel saltimbanco, baciato dal mutevole favore popolare e favorito dietro le quinte da un altro oligarca, tal Igor Kolomoisky? Del resto abbiamo visto nella ben più casalinga politica nostrana un equivalente disprezzo, anche se più italianamente felpato, per il teatrante parvenu dei Cinque Stelle.

D’altro canto, un giovane politico pieno di ideali e sogni per il suo Paese, offertosi come servitore del popolo, poteva cercare d’avvicinare con rispetto un pezzo da 90 come il russo, ma, come Angela Merkel, conosceva benissimo la sua lingua (che parla correntemente a dispetto dei benpensanti) e la sua cultura di formazione sovietica, profondamente autoritaria. Nell’ombra, le formazioni ultradestrorse e nazistoidi lo avevano già minacciato di morte, se si fosse azzardato a negoziare con i russi per risolvere il pasticcio ibrido del 2014, ulteriormente invelenito dal suo predecessore Poroshenko.

Eppure ci ha provato in vari modi senza troppo successo, persino prima dello scoppio della guerra. Su di lui pesava anche la spietata analisi che Putin aveva nella sua cerchia sulla solidità dell’Ucraina come entità ed identità politica stessa: quella che, insieme alla disperazione per la certezza che Kiev sarebbe finita nel girone euroatlantico, lo ha spinto con qualche dubbio alla sciagurata campagna d’aggressione. La guerra ha fatto la sua devastante opera: Zelensky ha apertamente disprezzato l’autocrate della Moscova per le atrocità commesse senza batter ciglio. Quanto tempo ci vuole per superare tutto questo? Non certo una settimana e mezzo.

Se però vogliamo ascoltare la voce del “sense”, la capacità di percepire razionalmente e con buon senso la realtà, allora quei giorni vanno sommati ad altre 156 settimane che hanno selvaggiamente e dolorosamente forgiato gli animi dei due antagonisti omonimi. Basta guardare le facce di Volodymyr e Vladimir 3 anni e mezzo fa ed oggi. Il primo è passato dalla figura di un politico disinvolto, sbarbato, trendy ad un tozzo lottatore, barbuto, severo, con il volto abraso dalla guerra. Rappresenta la forza degli ucraini quando sono all’angolo e lottano con la feroce, lucida e tagliente determinazione di chi, infischiandosene della gloria, venderà cara la pelle per un domani che verrà, forse. Il secondo ha subito una mutazione diversa; era un presidente vincente, scacchista sicuro del suo potere, russo che sentiva scorrere la forza di un Paese tornato potente e pronto al prossimo azzardo calcolato.

Oggi il lampo dei sui occhi azzurri è annebbiato dalla pressione di una guerra divorante, dalle disillusioni più profonde della politica e dell’amicizia perduta (ricordate Prigozhin?) e dalla sorpresa di un avversario molto più coraggioso del previsto, il volto consunto e reso quasi diafano dal peso del potere e dello scontro indiretto con l’America e gli alleati. Ha atteso con la tenacia di Federico il Grande non la morte della zarina Elisabetta, ma la vittoria elettorale di Trump (da lui auspicata e favorita). Incarna la tenacia, quasi cocciuta, di un Paese che non si rassegna a tramontare, con una tenuta stoica in condizioni estreme perché la Russia è eterna, figlia del millenario impero di Bisanzio. La guerra ha dato scacco a tutti e due.

Dunque, la maturazione delle opportunità politiche calpesta sentimenti, dolori, turbamenti umanissimi, ed impone spietatamente il suo ritmo sul filo incerto delle ore e dei contrattempi. Se non ora, quando si fermerà questa orribile guerra? I due nemici, provati dal conflitto, possono essere pronti ad un incontro diretto. Entrambi sanno che si è arrivati alle battute finali, dove il sangue dei morti non basta ad assicurare un interesse nazionale: si divorano orgoglio e lacrime in silenzio e s’incrociano i ferri della trattativa politica. Le strette di mano? Forse per la Piazza, cieca e vociante come sempre, fuori dalle cupe dorature del Palazzo.

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