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Tuvalu, l’esodo climatico è un diritto

Il ministro degli Esteri di Tuvalu durante il discorso sui cambiamenti climatici per la COP26 mentre è in piedi in mare

Quando il mare sale, l’orizzonte si avvicina. A Tuvalu, piccolo arcipelago nel cuore del Pacifico, l’acqua non è una metafora: erode coste, inzuppa campi, entra nei cortili, corrode fondamenta. Negli ultimi vent’anni le inondazioni da alta marea sono aumentate in frequenza e intensità, e nei mesi di tempesta la linea tra terra e mare diventa provvisoria. Da anni le proiezioni indicano che entro fine secolo buona parte del territorio sarà sommerso o comunque inabitabile. Ora, per la prima volta al mondo, questa previsione ha una risposta giuridica: un trattato internazionale che riconosce ai cittadini tuvaluani il diritto di migrare in un altro Stato non per guerra o persecuzione, ma per il cambiamento climatico.

Si chiama Trattato dell’Unione Falepili, firmato tra Australia e Tuvalu il 9 novembre 2023 ed entrato in vigore il 28 agosto 2024. In base all’accordo, fino a 280 persone all’anno potranno trasferirsi in Australia, con diritto a lavorare, studiare e accedere ai servizi pubblici. Non un’emigrazione forzata, ma un corridoio sicuro, regolato e permanente. “Non vogliamo essere rifugiati – ha spiegato in più occasioni il primo ministro Kausea Natano – vogliamo continuare a essere cittadini di Tuvalu, anche se vivremo altrove”. L’obiettivo è consentire alla popolazione di spostarsi in modo ordinato, prima che le emergenze rendano tutto più caotico.

Il caso è storico perché non esiste nulla di simile nella legge internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1951 tutela i rifugiati che fuggono da persecuzioni per motivi politici, religiosi o etnici, non da disastri ambientali. In Africa, la Convenzione di Kampala (2009) copre gli sfollati interni, ma non la migrazione oltre frontiera. Negli anni si sono accumulati casi singoli – come quello di Ioane Teitiota, cittadino di Kiribati che nel 2015 chiese asilo in Nuova Zelanda per ragioni climatiche – ma nessun Paese aveva mai creato un canale di ingresso dedicato e riconosciuto a livello statale. Per questo, il “modello Tuvalu” è destinato a finire nei manuali di diritto internazionale.

Gli effetti di questa novità si colgono subito. Per Tuvalu, significa garantire una via di sopravvivenza a una popolazione calcolata nel 2022 in 10.643 persone, distribuite su atolli bassissimi, dove il punto più alto supera di poco i 4 metri sul livello del mare. Per l’Australia, è un impegno umanitario ma anche strategico: rafforza i legami nel Pacifico, contrastando l’influenza crescente della Cina nella regione e consolidando la propria immagine di partner affidabile. Per il diritto internazionale, è un precedente che potrebbe ridisegnare le categorie della protezione umanitaria, aprendo la strada a nuovi strumenti multilaterali.

E il mondo guarda. Perché Tuvalu non è sola. Kiribati, le Maldive, le Marshall, intere comunità costiere del Bangladesh e del delta del Mekong sono esposte allo stesso destino: un lento esodo forzato dalle maree. Se il “modello Tuvalu” si consolidasse, altri Paesi potrebbero chiedere trattati simili, e gli Stati ospitanti dovrebbero decidere come distribuire responsabilità e costi. Si apre così una questione politica: quante persone un Paese è disposto ad accogliere per ragioni climatiche, e con quali criteri? E ancora: questi accordi saranno riservati a partner strategici o estesi a chiunque ne abbia bisogno?

La questione è anche culturale. Per gli abitanti di Tuvalu, partire non significa solo cambiare casa: significa rischiare di perdere lingua, riti, senso di comunità. Le canzoni tradizionali, i canti delle cerimonie, il sapere orale legato alla pesca in laguna potrebbero svanire in una generazione. Per questo il trattato prevede il mantenimento di un forte legame con l’arcipelago, investimenti per la sua difesa e la possibilità di tornare. È un tentativo di evitare che la migrazione diventi sinonimo di dissoluzione culturale. Ma resta il dilemma: cosa resta di una nazione quando i suoi cittadini vivono in un altro Paese? Può esistere una patria senza territorio, basata solo sulla comunità e sulla memoria?

Sul piano globale, l’accordo sposta l’asticella del dibattito. Finora, le migrazioni climatiche erano raccontate come scenari futuri o emergenze da contenere. Con Tuvalu, diventano una voce riconosciuta nei registri di frontiera. È il primo passo verso una ridefinizione di “rifugiato” che includa anche chi fugge da un ambiente ormai invivibile. Ma c’è un vuoto normativo: senza una cornice internazionale, ogni trattato sarà frutto di negoziati bilaterali, con regole e diritti diversi da caso a caso, e con il rischio di creare disparità tra popoli in difficoltà.

La lezione di Tuvalu è semplice e radicale: non si tratta più di “se” avverrà, ma di “come” e “quando”. L’innalzamento del mare, la desertificazione, le tempeste sempre più frequenti non si fermano ai confini. Dare un nome e un diritto a chi deve partire per il clima è una forma di riconoscimento politico e umano. È un invito – o una sfida – al resto del pianeta: prepararsi oggi per evitare di trovarsi domani a scegliere in fretta tra accogliere o respingere. E, soprattutto, decidere se il diritto a restare e il diritto a partire possano convivere, in un mondo che cambia più in fretta delle sue leggi.

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