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Oppioidi, un’epidemia americana


C’è un’epidemia, negli Stati Uniti, che attualmente fa 80mila morti ogni anno e, tra la fine degli anni Novanta e oggi, ha ucciso negli States più persone della somma di tutte le guerre successive alla Seconda (e non ne hanno fatte poche). Il nemico, in questo caso, è arrivato sul territorio nordamericano travestito da alleato: sembrava un amico che prometteva di cancellare sofferenze; ma da “pain killer“, assassino del dolore, si è trasformato in pochi anni in uno spietato assassino tout court.
Si chiamano oppioidi: il più famoso di tutti, negli ultimi anni, è diventato il fentanyl, potentissima droga che non solo è riuscita a far vittime, ma a deformare intere città, in Usa e Canada. Filadelfia, San Francisco, Vancouver, Chicago: tra gli effetti di queste sostanze c’è quello di sfigurare palesemente chi ne fa uso, e da quelle parti ormai la parola più diffusa per definire queste moltitudini deriva dai film horror: zombi. Gli zombi non popolano zone depresse o marginali ma, nella maggior parte dei casi, hanno invaso quartieri storici e un tempo ricchissimi e ordinati delle loro città.
Come è possibile che Usa e Canada non riescano a contrastare un fenomeno che non solo uccide i loro figli ma rischia di sopprimere economie cittadine (e immobiliari), in un mondo nel quale ricchezza e beni materiali sono tradizionalmente protetti, spesso, con un fucile dentro casa?
Con evidenza il nemico è sostenuto da un’economia altrettanto potente, il mercato cioè degli stupefacenti.
Ma, economia a parte, una spiegazione storica, scientifica e non poco interessante ci aiuta a trovarla la dottoressa Roberta Zanzonico, psichiatra italiana che si è formata proprio negli Stati Uniti e per tanti anni ha lavorato lì, in Massachusetts e a Los Angeles. Oggi lavora a Roma, ma continua a visitare anche pazienti d’oltreoceano, e ha ben presente le differenze culturali che hanno reso, alla fine degli anni Novanta, la popolazione americana più permeabile alla dipendenza da oppioidi.
Una diversa “cognizione del dolore“, per cominciare, e ci perdonerà Gadda se lo scomodiamo: “A un certo punto negli Stati Uniti – ci spiega Zanzonico – si è cominciato a valutare il dolore fra i cosiddetti ‘segni vitali’, quelli che vengono misurati appena entrati in ospedale o in pronto soccorso, come la frequenza cardiaca o la pressione. Nel momento in cui si comincia a fare questo screening per il dolore si domanda al paziente quanto è forte, in una scala da zero a dieci. Obiettivo prioritario di medico e malato diventa allora anche azzerare quel dolore.”
In Italia se, per esempio, ci togliamo il dente del giudizio, siamo abituati a tollerare l’idea che nei giorni successivi ci faccia un po’ male, lo sopportiamo: in America le cose vanno diversamente, ed è proprio alla fine degli anni Novanta che gli oppioidi cominciano a venire impiegati come un antidolorifico, immediato e potentissimo. È l’inizio di quella che il Cdc (Centers for Disease Control and Prevention), cioè l’agenzia americana per la sanità, ha definito come la prima ondata dell’epidemia da oppioidi, fino allora prescritti in prevalenza a malati terminali di cancro, che incominciano invece a essere reclamizzati da alcune case farmaceutiche come adatti per trattare dolori di altro tipo, anche cronico. Caso emblematico è quello dell’Oxycontin, un farmaco di enorme successo negli Usa, che cominciò a essere largamente prescritto proprio perché reclamizzato dai suoi produttori come un medicinale che non avrebbe dato dipendenza.
Non era vero: “I medici, molti anche in buona fede, hanno detto: ma perché devo lasciare un paziente col dolore quando gli posso dare l’Oxycontin? – continua la dottoressa Zanzonico – Ora, in realtà l’Oxycontin dava tantissima dipendenza: e c’era chi se lo ritrovava prescritto magari anche dopo l’estrazione di un dente del giudizio.” Un dolore, cioè, destinato a estinguersi in pochi giorni: “Per molti pazienti invece è diventato poi una sostanza di abuso, cioè una sostanza di cui tu hai bisogno per non stare male: e hanno cominciato a cercare l’Oxycontin per strada. A un certo punto infatti il medico diceva: vabbe’, il dente del giudizio l’abbiamo levato una settimana fa, non ti serve più: non te lo prescrivo più.”
Ma nel frattempo alla dipendenza fisica si era sommata anche quella psicologica, molto forte nel caso di queste sostanze, ancora di più se il farmaco viene prescritto e impiegato più a lungo: “E allora chi era rimasto senza prescrizione ha cominciato a cercarlo in strada”, ci racconta Zanzonico.
È l’inizio di quella che, secondo il Cdc, è la seconda ondata dell’epidemia, cominciata verso il 2010: “Le pasticche di Oxycontin costavano di più dell’eroina. Dopo un po’ trovavi qualcuno che ti diceva: Ma che ti prendi a fare le pasticche quando l’eroina ti costa di meno? Come tutte le sostanze di abuso, poi, hai bisogno sempre di dosi crescenti. E molti hanno cominciato a iniettarsela.”
Nel 2012 i consumatori di eroina, negli States, sono circa 670mila, il doppio rispetto al 2006: un bisogno fabbricato in ambito clinico si fonde all’offerta di un mercato agile, vasto, potente, quello del narcotraffico. Il mondo delle droghe ha una forte prontezza di riflessi nell’intercettare le novità, soddisfare il bisogno e rinnovarsi: è allora che comincia a circolare il fentanyl, droga sintetica da 30 a 50 volte più potente dell’eroina, il cui uso farmaceutico era limitato e ristretto ai pazienti terminali e a situazioni successive a una chirurgia importante.
Nella maggior parte dei casi il fentanyl era smerciato e assunto come additivo di altri oppioidi, spesso inconsapevolmente: “La gente di fatto cercava l’eroina, e all’eroina veniva aggiunto il fentanyl per aumentarne la potenza – spiega la psichiatra – All’inizio noi in ospedale non avevamo neanche un test di tossicologia per il fentanyl: non era una droga comune.” I test sono cominciati con l’aumentare dei casi di overdose: “Il fentanyl si cominciava a trovare non solo nell’eroina, ma anche nella cocaina e addirittura nella marijuana.”
L’elemento è cruciale per la sua espansione geografica: “Negli States l’eroina era una droga diffusasi, nel tempo, prevalentemente al Nord-Est, più vicina a una certa cultura e forse più ricercata in territori climaticamente più freddi. Le droghe della California erano invece più ricreative: le metanfetamine ad esempio. Ma il fentanyl è finito dappertutto: nel 2018 io ho cominciato a lavorare a Los Angeles, penso che ormai tutti in quella città conoscono qualcuno che è morto di fentanyl.”
Storicamente, di fronte a un fenomeno del genere, i governi oscillano fra repressione e permissivismo. Il Canada si è orientato di recente a quest’ultima indicazione, e oggi gli Usa accusano quel loro vicino di essere diventato un pericoloso esportatore: a febbraio di quest’anno Trump ha aumentato i dazi sulle importazioni canadesi (escludendo petrolio, gas ed elettricità), proprio usando tale pretesto. Di fatto gli ultimi rilevamenti della stessa Drugs Enforcement Agency puntualizzano che in realtà negli Stati Uniti la quantità di fentanyl proveniente dal Canada si limita all’1% del totale. Mettendo da parte le constatazioni sull’attuale politica statunitense in materia di importazioni, il fentanyl ha anche inquinato un rapporto fra Usa e Canada che in precedenza era molto più disteso.
E da noi? Quali sono le maggiori differenze fra America ed Europa, in termini di salute mentale e permeabilità alla tossicodipendenza? “In Italia le famiglie sono in linea generale più presenti, si prendono più cura di chi va a sbattere contro gli oppioidi. Ma è anche vero che qui da noi la sofferenza e la malattia mentale sono più di rado e più tardi trattate da uno psichiatra“, conclude la dottoressa Roberta Zanzonico, la quale nel 2021 è tornata a lavorare a Roma. In troppi casi in Italia si finisce per riflettere sul proprio stile di vita o a ricorrere un uso prolungato di benzodiazepine: anche questo tipo di farmaci induce dipendenza, e incoraggia in certi casi all’abuso di sostanze. “Io trovo che in generale i pazienti italiani siano molto più complessi da trattare di quelli americani, soprattutto perché non si curano, e si curano male.”

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