Sulla tragedia di Gaza pende la scure dell’occupazione da parte di Israele. Una prospettiva che contribuisce a rendere sempre più obsoleta l’opzione classica dei “due popoli, due Stati”. Di questo tema sempre più controverso abbiamo parlato con il diplomatico Ettore Francesco Sequi, in passato segretario generale del ministero degli Affari Esteri e ambasciatore d’Italia in Cina.
Ambasciatore, l’idea dei due popoli, due Stati è ancora praticabile?
Oggi il governo israeliano appare assolutamente contrario a questa opzione. Lo stesso vale per gli Stati Uniti che lo assecondano. Questo è l’aspetto statico. C’è poi un aspetto dinamico: man mano che passa il tempo diminuisce progressivamente la consistenza territoriale su cui uno Stato palestinese dovrebbe insistere. In Cisgiordania gli insediamenti continuano e vengono sanati quelli abusivi. E se va avanti l’occupazione di Gaza, il territorio disponibile diminuirà ulteriormente. I riconoscimenti dello Stato palestinese annunciati da alcuni Paesi europei sono importanti non solo sotto un profilo etico e politico ma perché rispondono a questa deriva. Ma non portano risultati pratici.
Ma la fine del sogno dei due Stati è solo responsabilità di Israele? Non ha influito anche l’attacco del 7 ottobre? E il fatto che, dopo l’abbandono di Gaza da parte di Israele nel 2005, nessuno è stato in grado di costruire le istituzioni politiche necessarie? Infine, uno Stato si qualifica anche per il monopolio dell’uso della forza e l’amministrazione della giustizia: quale soggetto sarebbe legittimato oggi a esercitare questi poteri a Gaza?
Concordo assolutamente con queste osservazioni. E vorrei condividere con lei un altro concetto. Giovanni Falcone diceva che la mafia prolifera dove lo Stato non eroga i servizi di cui la popolazione ha bisogno: ordine, istruzione, lavoro, assistenza, giustizia. Alla fine questa assenza lascia il monopolio della forza a entità non statali in grado di farlo anche quando sono dei cattivi soggetti. Aggiungerei un altro aspetto…
Prego…
Anche la frammentazione palestinese non aiuta: l’Anp è debole e questa debolezza costituisce un ostacolo. Lo stesso dicasi per Hezbollah. La dialettica interna al mondo palestinese ha ostacolato la costruzione dello Stato. C’è poi un importante elemento religioso in campo.
Quale?
Nemmeno gli Usa vogliono lo Stato palestinese anche a causa di un rapporto fortissimo tra la destra messianica israeliana e la destra evangelica americana. Per gli evangelici statunitensi, l’estensione di Israele è la condizione per la seconda venuta di Cristo: lo Stato palestinese impedisce questa profezia. Un vero e proprio asse teologico: non a caso l’ambasciatore americano in Israele, Mike Huckabee, evangelico e pastore battista, si è sempre speso per ostacolare questa soluzione.
Torniamo al monopolio della forza, caratteristica decisiva di uno Stato, e al controllo politico-militare dell’area. Chi è in grado di assicurarlo oggi?
Oggi siamo in una situazione patologica. Ci dobbiamo elaborare qualche altra cosa. Vista la fretta manifestata da Donald Trump, mi aspetto che prima o poi gli americani presentino una proposta aggiornata del “Peace to Prosperity Plan” promosso all’inizio del 2020. Lì non era previsto uno Stato palestinese, bensì un’ampia autonomia per i palestinesi, a condizione di rinunciare alla lotta armata e di riconoscere definitivamente lo Stato di Israele. Il piano di Trump teneva conto della situazione sul terreno: vista anche la mancanza di contiguità territoriale, la sicurezza e il controllo alle frontiere sarebbero stati assicurati dagli israeliani. Il piano fu criticato dall’Anp. Oggi però la situazione è cambiata: una proposta siffatta potrebbe essere interpretata dai vari attori – e dai sauditi in particolare – come una prospettiva verso un futuro consolidamento di uno Stato palestinese.
Nei giorni scorsi la Lega Araba ha intimato ad Hamas di deporre le armi, di rilasciare gli ostaggi e di riconsegnare Gaza all’Autorità nazionale palestinese. Che ne pensa?
È una novità assoluta: è la prima volta che viene assunta una presa di posizione così chiara. I Paesi della Lega Araba hanno capito che, se questa situazione va avanti, rischiano di avere problemi di carattere interno e devono dimostrare alle proprie opinioni pubbliche che qualcosa si sta facendo. Questa dichiarazione è anche un riconoscimento per l’Anp, che già nel giugno scorso, prima della conferenza franco-saudita di New York, aveva fatto dei passi in avanti criticando Hamas, promettendo di autoriformarsi e preparando la successione di Abu Mazen.
Quale ruolo vede quindi per i Paesi arabi?
I Paesi arabi hanno assolutamente necessità di stabilizzare la situazione regionale e sono molto preoccupati per l’attacco che potrebbe essere deciso oggi. La situazione a Gaza crea inoltre danni notevoli per i loro piani di sviluppo. Del resto, se un piano americano verrà presentato, sarà preparato consultando i sauditi, che sono sempre più il partner globale americano. Al punto da aver ospitato i colloqui sulla crisi in Ucraina.
E i Paesi europei che ruolo potrebbero avere? L’annuncio del riconoscimento dello Stato palestinese da parte di alcuni di questi non si è trasformato in una legittimazione di Hamas?
I Paesi europei affrontano la frustrazione delle opinioni pubbliche nel vedere queste scene terribili. Le preoccupazioni sulla legittimazione di Hamas si riducono visto che anche la Lega Araba ha delegittimato Hamas.
Qualcuno dice che questa iniziativa abbia irrigidito Netanyahu…
Il premier israeliano è già in difficoltà con la sua maggioranza. In ogni caso, a parte il valore simbolico, questi riconoscimenti servono a dare un messaggio: rallentare il processo di erosione territoriale dello Stato palestinese, perché man mano che passano i giorni c’è sempre meno territorio. Un modo per dire: non allargatevi troppo. La verità è che l’Ue non fa qualcosa che avrebbe un impatto concreto più grande: un embargo delle armi e un intervento sugli accordi commerciali con Israele. Ci sono ancora sensibilità troppo diverse.
Per trovare un’altra soluzione a Gaza serve uno sforzo di fantasia diplomatica. Le lancio una provocazione:
Potrebbe avere senso l’opzione di un unico Stato, quello di Israele, che esercita il controllo militare sull’area a condizione di concedere la cittadinanza ai palestinesi e ampie forme di autonomia politica e finanziaria a Gaza e Cisgiordania?
Proprio il piano statunitense “Peace to Prosperity” per il Medio Oriente prevedeva 50 miliardi di dollari di investimenti. Se ci fosse una proposta simile o passasse un principio di questo genere, le opzioni si adatterebbero. Qualcuno parla di adottare il modello di Hong Kong o quello dell’Alto Adige. Sono soluzioni incognite in quell’area. Il tema che deve preoccupare è che più passano i giorni e più l’ipotesi dei due Stati effettivamente si allontana. L’esercizio di creatività e di pragmatismo dovrebbe partire da qui.