Secondo il Wall Streat Journal il nome di Trump figurerebbe tra quelli della famosa “lista”, per sviare le critiche il tycoon attacca l’ex Presidente Barack Obama
Dopo quello che avevamo scritto ieri a proposito delle difficoltà che il presidente degli Stati Uniti sta affrontando in seno al grande bacino Maga, (difficoltà legate soprattutto al terremoto mediatico del caso riguardante Jeffrey Epstein), torniamo oggi sul vivo della vicenda. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, infatti, Trump sarebbe stato informato lo scorso maggio dal procuratore generale Pam Bondi del fatto che il suo nome compare in più punti all’interno dei file su Epstein, il finanziere morto suicida in carcere nel 2019, dove era detenuto per traffico internazionale di minori e abusi sessuali. Immediata la reazione della Casa Bianca.
Steven Cheung, direttore della comunicazione presidenziale, ha definito l’articolo del Wall Street Journal «l’ennesima fake news», affermando che si tratta di «una montatura orchestrata per screditare il presidente». Ma la rivelazione ha avuto un’eco ancora maggiore dopo che Trump, nel tentativo di ribaltare l’attenzione mediatica, ha rilanciato un’accusa già mossa in passato: quella secondo cui l’ex presidente Barack Obama avrebbe complottato per alterare le elezioni del 2016. In una dichiarazione inusualmente diretta, l’ufficio dell’ex presidente ha risposto con fermezza: «Ridicolo e bizzarro», si legge nella nota.
«Per rispetto della carica presidenziale evitiamo solitamente di rispondere a queste continue sciocchezze, ma le affermazioni del presidente in carica sono talmente oltraggiose da meritare una replica». Obama ha inoltre ribadito la validità delle conclusioni del rapporto bipartisan del 2020 del comitato per l’Intelligence del Senato, secondo cui la Russia ha effettivamente tentato di influenzare le elezioni presidenziali, pur non riuscendo a manipolare alcun voto. Sulla scia delle rivelazioni del Wall Street Journal, la deputata democratica Pramila Jayapal ha chiesto la pubblicazione integrale dei dossier su Epstein.
Il Congresso tenta di forzare la pubblicazione
In un post su X ha scritto: «Ora sappiamo esattamente di cosa Trump aveva paura. Rendete pubblici i file». E il Congresso ha avviato una procedura per forzare il dipartimento della Giustizia a desecretare i materiali legati all’indagine Epstein. Alcuni parlamentari democratici sospettano che dietro la riluttanza a rendere pubblici i documenti si celi il timore di rivelazioni scomode riguardanti figure di alto profilo della politica e dell’economia. A rafforzare il clima di tensione istituzionale è intervenuta una decisione della magistratura: un giudice federale ha infatti rigettato la richiesta dell’amministrazione Trump di desecretare i verbali delle vecchie indagini del grand jury in Florida, risalenti agli anni in cui Epstein era già finito nel mirino della giustizia.
Secondo il giudice, la richiesta non rientra in nessuna delle «eccezioni straordinarie» previste dalla legge federale per rendere pubblici documenti normalmente riservati. Il dipartimento di Giustizia aveva motivato l’istanza con l’intento di «placare le voci complottistiche» circolanti fra i sostenitori trumpiani, che sospettano l’esistenza di una rete di protezione per i clienti più influenti di Epstein. Ma per il tribunale federale si è trattato di una motivazione insufficiente. A complicare ulteriormente il quadro è intervenuta Tulsi Gabbard, ex candidata democratica e oggi direttore dell’Intelligence nazionale sotto l’amministrazione Trump.
Le interferenze russe nel 2016
Gabbard ha promosso la pubblicazione di un rapporto della Camera che, a suo dire, ridimensiona la portata dell’interferenza russa nelle elezioni del 2016. In parallelo, la commissione di vigilanza della Camera ha emesso un mandato di comparizione per Ghislaine Maxwell, storica collaboratrice di Epstein, oggi detenuta, al fine di ottenere ulteriori chiarimenti sui presunti legami con personaggi pubblici. Trump, in passato già sottoposto a un’inchiesta della Corte Suprema per una serie di presunti abusi di potere, si ritrova ora nuovamente sotto i riflettori, mentre si avvicina la tornata elettorale di metà mandato (2026).
La presenza, vera o presunta, del suo nome nei documenti di Epstein non costituisce di per sé una prova di reato, come ha sottolineato il Wall Street Journal, ma il contesto e i tempi delle rivelazioni alimentano il sospetto che l’ex presidente stia cercando di anticipare una crisi d’immagine con un’offensiva comunicativa. Secondo fonti vicine alla Casa Bianca, Trump avrebbe chiesto alla sua squadra legale di valutare tutte le possibili strategie per bloccare o ritardare ulteriori fughe di notizie. Intanto, in ambienti repubblicani moderati si registra un crescente disagio: alcuni esponenti, mantenendo l’anonimato, parlano di un «clima da resa dei conti».