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Non addestrati, in crisi psicologica: perché i soldati israeliani sparano sulla gente

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I militari non sanno gestire l’ordine pubblico. Dopo quasi due anni di guerra, in aumento casi di suicidio

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Cosa spinge l’esercito israeliano a sparare reiteratamente sui civili inermi di Gaza? O dietro ci sono le provocazioni di Hamas? La dura condanna internazionale mossa dai ministri degli Esteri di 25 nazioni – tra cui l’Italia – contro l’operato delle forze armate israeliane a Gaza ha acceso ancora una volta la luce sul tema della distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia.

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Nel messaggio infatti la critica contro la strategia adottata da Tel Aviv per distribuire le derrate alimentari e i medicinali rappresenta il nocciolo della dichiarazione e si basa su due critiche principali. Da un lato, i punti di distribuzione vengono considerati troppo pochi e la quantità dei beni alimentari erogati volutamente troppo bassa per poter soddisfare i bisogni primari di una popolazione stremata di due milioni di persone, ridotte in ginocchio da quasi due anni di brutale conflitto.

Soltanto nella giornata di ieri almeno 19 persone sarebbero morte di fame nella Striscia, secondo una strategia che – nelle parole di numerosi ministri del governo israeliano – vede proprio nella fame uno strumento di pressione contro la popolazione civile per costringere una svolta politica che determini la resa delle forze della resistenza palestinese, in primis Hamas.

 Wafa, 4 bambini uccisi in raid davanti a panetteria a Gaza
Wafa, 4 bambini uccisi in raid davanti a panetteria a Gaza

Anche se, dall’indignazione suscitata, si può già dire che le immagini dei palestinesi – per lo più vecchi, donne, bambini e feriti, cioè chi è incapace di procacciarsi autonomamente da mangiare – emaciati che cadono in mezzo alla strada stroncati dalla carestia probabilmente arrecheranno più danno all’immagine di Israele di qualunque vantaggio che l’Idf possa trarne sul campo (realizzando così l’obiettivo che più di tutti Hamas si era posto fin dall’inizio).

A essere sotto accusa è la gestione della Gaza Humanitarian Foundation, associazione molto legata al governo americano e a quello israeliano che ha ricevuto dall’Idf il monopolio della gestione degli aiuti nella Striscia dopo l’espulsione delle organizzazioni non governative internazionali.

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Ma è il secondo elemento quello più dirompente: secondo la dichiarazione di condanna internazionale, il sistema di assistenza umanitaria pensato da Israele provoca direttamente la morte di centinaia di civili palestinesi, uccisi dai soldati israeliani non appena iniziano a radunarsi per ricevere gli aiuti. Tra gli ottocento e i novecento palestinesi sono rimasti uccisi in questo modo, di cui almeno un centinaio soltanto nell’ultimo fine settimana.

Sulla questione naturalmente si è consumata l’ennesima battaglia mediatica tra bianco e nero: da un lato le autorità israeliane negano in toto di aver commesso alcun crimine nella condotta della guerra a Gaza, dall’altro la galassia palestinese asserisce che la fame e le stragi in fila per il pane siano frutto di un disegno esplicito dello Stato ebraico per realizzare lo sterminio del popolo palestinese.

Sebbene un’inchiesta del noto quotidiano israeliano Haaretz abbia portato alla luce come i soldati di Tel Aviv ricevano ordini di agire in tal senso, un’analisi più attenta non può non soffermarsi sui grandi spazi grigi che la cieca brutalità della guerra crea, soprattutto in presenza di un radicato odio tra le due parti.

Esistono in particolare due elementi da mettere in luce. In primo luogo, la decisione di affidare all’esercito la gestione delle questioni di sicurezza legate alla distribuzione degli aiuti umanitari. Una scelta probabilmente inevitabile, data la pericolosa situazione sul campo, ma gravida di conseguenze. I militari regolari, infatti, tendenzialmente non risultano addestrati a gestire questioni di ordine pubblico.

Soldati equipaggiati per combattere

Laddove un poliziotto ha il compito primario di disinnescare e contenere una situazione potenzialmente pericolosa, per esempio una manifestazione ostile, un soldato è addestrato ed equipaggiato a combattere ed eliminare la minaccia. Secondo quanto riferito dall’Idf, molti dei casi di sparatorie contro i civili palestinesi avvengono nei confronti di folle di disperati che si sono radunati in attesa di cibo senza comprendere o rispettare le procedure (come mettersi in file ordinate e avanzare uno alla volta oppure non avvicinarsi ai centri di distribuzione dopo la fine dell’orario di erogazione degli aiuti). In questo caso, in presenza di ordini (quelli rivelati da Haaretz) che lasciano ai soldati mano libera nell’impiego della forza letale in caso di potenziali rischi alla propria sicurezza, tali situazioni sfociano facilmente nell’uccisione di civili inermi.

Soldati disumanizzati, record suicidi tra reduci

In secondo luogo, non può essere ignorato il fattore rappresentato dall’aver impiegato in tali ruoli soldati verosimilmente disumanizzati dopo quasi due anni di guerra casa per casa tra le rovine di Gaza. In un caso più unico che raro infatti l’Idf ha scelto – probabilmente a causa dei numeri relativamente limitati – di non effettuare turni per permettere ai soldati impiegati nella Striscia di riposarsi tra un combattimento e l’altro.

Questo inevitabilmente incide sulla salute mentale dei militari coinvolti – l’Idf ha riportato un record di suicidi tra i reduci, almeno 19 dall’inizio dell’anno – e si somma a una già presente carica di odio etnico e di sentimento di vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre 2023.

Gli sfoghi violenti contro la popolazione sono uno schema ricorrente in queste condizioni ed esulano in realtà da qualunque valutazione strategica degli alti comandi: non avevano una particolare logica le stragi compiute dai soldati americani in Vietnam, come il famigerato massacro di My Lai, come non aveva senso per i cecchini serbi sparare sui civili in fila per il pane durante l’assedio di Sarajevo.

Ma il giudizio storico severamente negativo di queste esperienze (e anche la sorte finale dei citati eserciti) deve in effetti suonare come un monito per Israele: a prescindere dal caso specifico, con l’occupazione della Striscia e con la pretesa di conservarla d’ora in avanti “de-hamasizzata” Tel Aviv si è assunta la responsabilità della sicurezza della regione e questo vale anche per la distribuzione degli aiuti umanitari ai civili. Fame e stragi di civili non sono e non possono essere sinonimi di quella sicurezza che Israele tanto ha lottato per conseguire ma che con queste azioni rischia di allontanare.

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